Presentare Ellisse al Pisa Book Festival ha significato muoversi in una cornice prestigiosa e al tempo stesso stimolante, animata da una pluralità di voci, di scritture e di libri. Perché dei libri è necessario riscoprirne il valore intrinseco, chiamati ad assolvere – mai come adesso – il ruolo di mappe e di bussole orientative in quelle che sono le pieghe della realtà e dell’anima, quasi portando avanti una pratica dell’autoconsapevolezza. «Il vero luogo natio», scriveva Marguerite Yourcenar, «è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su sé stessi [e] la mia prima patria sono stati i libri». Una citazione che, di conseguenza, ci invita a riflettere sul valore trasformativo della lettura e dell’oggetto libro in sé, e che a mio parere appare decisamente calzante per esprimere l’anima di questa collana, nonché i propositi che, circa un anno fa, hanno animato il suo costituirsi.
Una collana nata dalla sinergia tra l’Archivio per la Memoria e la Scrittura delle Donne “Alessandra Contini Bonacossi” e la casa editrice Effigi. Una collana che, già dal titolo, mette radici in una polarità fervida e eccentrica: l’ellisse come figura geometrica e l’ellisse – volendo rifarci all’etimo greco della parola – come “omissione, mancanza”, che nel guardare alla figura retorica dell’ellissi richiama una zona editorialmente e letterariamente franca. Uno spazio ellittico, alllora, da intendersi come spazio cangiante, pluridialogico, animato da un susseguirsi di molteplicità costitutive – si va dalla narrativa, alla poesia, alla saggistica – senza però perdere di vista quella che è la qualità editoriale.
Ellisse nasce sotto il segno di una ‘triangolazione’ sui generis e, soprattutto, squisitamente letteraria: due romanzi – L’amore senza volto di Camille Mallarmé e Il viaggio di Adele di Rosalia Manno – e una raccolta di poesie – Dalla terra alla terra di Michiza Pinzo. Letteratura, quindi: quanto di più necessario in questa «rassegnata contemporaneità», volendo prendere a prestito una formula di Robert Musil.
E vorrei partire da quello che è stato il primo tassello di Ellisse, e cioè il romanzo L’Amore senza volto di Camille Mallarmé, che a quasi un secolo di distanza dalla sua pubblicazione esce per la prima volta in traduzione italiana. In quanto traduttore dell’opera e studioso dell’autrice ormai da diversi anni, sono ben consapevole di muovermi in un terreno accidentato, ma mi piace pensare Camille qui, a due passi da noi, assorta dinanzi al Trionfo della morte Buonamico Buffalmacco nel Camposanto di Pisa, proprio come la protagonista del suo romanzo.
Quando si parla di Camille Mallarmé bisogna scendere a patti con una personalità che è andata incontro a un’evoluzione regressiva: a un dissolvimento che si è risolto in una vera e propria damnatio memoriae. Camille Mallarmé è stata una delle figure più poliedriche del primo Novecento: pronipote del poeta Stéphane, amica intima di Eleonora Duse, prima traduttrice di Pirandello in Francia, corrispondente e consigliera di Gabriele D’Annunzio, il Vate, che ebbe modo di definirla come «l’italiana di Francia». Ma questo non toglie che ci si trovi ad aver a che fare con un’identità irrisoluta, contraddittoria, spezzata, e oltretutto non certo immune da zone d’ombra: perché Camille è stata anche la moglie del fascista Paolo Orano, è stata corrispondente per le testate antisemite d’oltralpe. È stata, ed è, un’Euridice di carta. E non potrei trovare definizione più calzante.
Ma Camille Mallarmé è anche scrittrice, giornalista, critica d’arte. L’amore senza volto è il suo terzo e ultimo libro. Un romanzo pubblicato nel 1924, dopo una gestazione decennale, e che in un certo qual modo sigla la liberazione della scrittrice e della donna, che qui si fa vestale della ricerca del proprio destino e elegge la pagina scritta a zona di potenziamento: la sua stanza tutta per sé, per dirlo con Virgnia Woolf. Una stanza in cui nemmeno il marito Paolo Orano – che traduceva le opere di Camille in lingua italiana e che era solito cassare le pagine da lui ritenute sconvenienti – avrà modo di entrare. Camille ci consegna un testo scomodo, a tratti incendiario e che, a conti fatti, diventa il suo rogo, la sua nemesi inevitabile, da cui però, badate bene, ella rinasce per noi, oggi, come grande scrittrice.
Perché insistere su tali questioni? Perché L’amore senza volto manomette il patto romanzesco e attinge al vissuto autobiografico, dando un volto a quel sentimento che, nel titolo, è ancor privo di una propria fisionomia. Camille porta sulla pagina la storia d’amore tra la scrittrice Andrée Dierx e la musicista di origini slave Béryl Baïamonti: due donne che, a loro volta, altre non sono che le trasfigurazioni letterarie di Camille Mallarmé ed Eleonora Duse. E, secondo me, la traduzione di questo libro doveva uscire adesso. In prima battuta, perché si inserisce e anticipa il canone della letteratura lesbica – che, secondo la critica, avrà origine con Il pozzo della solitudine di Radcliffe Hall, pubblicato nel 1928, quindi quattro anni dopo – portandoci a riflettere anche sull’assenza di una grammatica specifica per quanto concerne l’amore tra donne, sulla precarietà di un lògos ancora incapace di pronunciare l’«amore che non osa dire il suo nome» (volendo usare le parole di Lord Alfred Douglas). In seconda battuta, L’Amore senza volto incrina e fa saltare le logiche maschilistico-patriarcali, perché sono le Donne, qui, a farsi indiscusse protagoniste. Donne che vedono, sentono, ma soprattutto vivono, in un’estetica di invisibili corrispondenze. Camille porta sulla pagina – siamo nel 1924, badate bene – una famiglia omogenitoriale, costituita da due madri e una figlia, e lo fa con una spontaneità così disarmante che ci spinge a riflettere su come certe opere letterarie siano destinate a una costante deriva: non sono uno scoglio immobile, quanto piuttosto – e qui mi rifaccio al teorico della traduzione Friedman Apel – una piattaforma galleggiante che, prima o poi, trova il suo approdo. Il suo pubblico di lettori.
L’Amore senza volto è un lascito dinamitardo, scomodo (stroncato all’epoca dalla critica e stampato in poco più 30 esemplari) e che oggi approda – volendo ancora far uso della metafora nautica – in tutta la sua interezza, senza tagli o censure, per dare voce a una delle scrittrici più originali della temperie primonovecentesca.
Questa è Ellisse. Questa è la nostra collana, destinata a crescere con nuovi lavori di altissima qualità scientifica: penso all’imminente volume di Elisabetta Benucci sulle Dantiste dell’Ottocento; alla monografia di Anna di Giusto sul fumetto femminista; o alla splendida serie Carte di donne.
Uno spazio ellittico, appunto, e perciò polimorfico, il cui rigore e la coerenza interna sono da ricercarsi proprio nelle stesse voci che lo animano e lo compongono. Voci che sono anche, ma soprattutto, libri. In fondo, come scriveva Wisława Szymborska: «leggere libri è il gioco più bello che l’umanità abbia inventato».
Diego Salvadori