La maestra Sara giunse in Maremma dalla nativa Napoli nei primi anni ’50, a seguito del marito, un ottimo impiegato dello stato, laureato e di buona famiglia. Lei aveva trentacinque anni e l’incipiente pinguedine non rendeva meno dolce il suo bel viso radioso, con profondi occhi neri e un sorriso smagliante quanto ingenuo.
Suo figlio Angelo, un robusto bambino di dieci anni, col viso uguale a lei, condivideva con la madre la nostalgia della città partenopea, della lingua napoletana e della pizza come si deve. Entrambi si sentivano esiliati, nella piccola Grosseto, senza mare e senza confusione.
Sara non amava l’ironia pungente dei maremmani, un certo disincanto nei confronti dei sentimenti e dello spirito. L’unica con cui si trovava bene era Maria, la sua collega con cui condivideva tra l’altro il breve percorso in treno per arrivare nella frazione dove entrambe insegnavano. Lei, a differenza delle altre colleghe, non era chiacchierona, ma riservata e discreta.
Inoltre, non la prendeva mai in giro per i suoi chili in più né per l’accento inconfondibile. Così avevano stretto amicizia. Maria, tra l’altro, era fidanzata (un po’ tardivamente, pensava Sara, dato che era quasi sua coetanea) con un giovane anche lui originario della Campania.
“Ma il fidanzato vostro non tiene nostalgia della sua terra?”.
“Veramente no, Sara. E ti prego, smetti di darmi del voi”.
“Eppure anche lui parla napoletano… Però già, è di Caserta, anzi della provincia”.
“Ecco appunto – rispondeva Maria – La canzone dice c’incontreremo a Napoli, mica a Caserta!”.
“Già. Però… La lingua sua qui non la parlano. E neanche la capiscono”.
Sedute al bar Gorrieri, le due maestre bevevano tutti i pomeriggi un ottimo caffè, ma Sara, per consolarsi delle mancanze paesaggistiche e affettive, aggiungeva anche un paio di bomboloni e così faceva anche il piccolo Angelo.
“Angelo mio, a mamma, smetti di mangiare tutti quei dolci!”.
“Mammina, smetto se smetti tu!”, rispondeva lui ridendo mentre le sue guance paffute si riempivano di pasticcini e cioccolate.
Il dottore, ovvero il marito di Sara, non si vedeva quasi mai, era impegnatissimo e scostante, e si rivolgeva alla moglie con fare autoritario, anche in presenza dei colleghi.
“Buonasera, signorina Maria”.
“Buonasera, dottore”.
“Glielo dica lei a Sara che smetta di mangiare tanto. Guardi là, ha due gambe che sembrano tronchi di quercia”, sprezzantemente scuoteva la testa.
Gli occhi di Sara si riempivano di lacrime. Non c’era la casa al Vomero dove abitavano i genitori, non c’erano la mamma e le sorelle, e neppure le amiche…
In compenso c’erano tutti quei colleghi un po’ furbi, troppo scherzosi per lei.
I micro-viaggi quotidiani in treno erano anche divertenti, in un certo qual modo. Il maestro Luigi raccontava aneddoti e barzellette (che lei non sempre capiva, con tutte quelle c mangiate), Maria era amabilmente affabile e raccontava piccole storie dei suoi alunni, mentre l’altra collega, molto brava in cucina, parlava delle sue ricette toscane e invitava Sara a prenderne nota.
Lei, però, pur parzialmente integrata, si sentiva sempre un po’ fuori posto e avrebbe voluto prendere l’altro treno, al mattino, quello che andava a sud, verso il sole e verso la sua famiglia.
Una sua caratteristica, oltre alla marcata emotività, era quella di essere piuttosto credulona.
In quegli anni si parlava spesso di madonne che muovevano gli occhi e lei era molto affascinata da questo particolare. In fondo in fondo, le sarebbe piaciuto che, quando andava a messa in duomo, la Madonna delle Grazie, le si rivolgesse con il suo sguardo materno, pur se un po’ distaccato. “Sara, proprio tu, guarda, sei qui in questa città sperduta, ma non sei sola”. E magari, girando gli occhi verso di lei, le avrebbe sorriso. In realtà questa miracolosa conversazione non avvenne mai, ma Sara pensava sempre che forse, un giorno…
Intanto recitava un’Ave Maria. Poi chissà.
Il possibile, l’impossibile. Quale era il confine? Per Sara piuttosto sfumato.
Una mattina, mentre viaggiavano in treno e alcuni colleghi fumavano, Sara emerse dalle sue riflessioni dicendo: “Ma, secondo voi, come fanno a vuotare i posacenere?”.
Il maestro Luigi, da buontempone quale era, non perse l’occasione:
“Eh, Sara, la sera il treno torna al deposito e lì c’è una squadra di operai che lo gira a capo all’ingiù e svuota i posacenere”. Maria e gli altri colleghi ridevano. Invece Sara lo prese sul serio e immaginò questa squadra di operai, peggio di quelli che costruivano le piramidi, costretti a lavorare la sera per portare a termine il loro faticosissimo compito.
Più tardi si rivolse all’amica: “Maria, certo che quello del treno è un lavorone!”.
“Sara, ma il collega scherzava”.
“Lui scherza sempre, scherza troppo. Ma in fondo può essere anche vero, magari capovolgono il treno per togliere tutta la sporcizia, non solo la cenere…”.
La sera ebbe la malaugurata idea di parlarne al marito. E lui, lapidario: “Ma tu non capisci proprio niente”.
Il giorno dopo Sara era particolarmente triste. La Madonnina continuava a essere immobile nella sua eleganza. I posacenere del treno un vero mistero e una trappola. Inoltre, mentre spiegava geografia, aveva avuto un vuoto, legato forse alle emozioni negative che viveva, e non riusciva a ricordare come si chiamavano gli abitanti di Mosca. Meno male che c’era Maria, sempre gentile e che non la prendeva in giro.
Le mandò un biglietto per la bidella. “Cara Maria, come si chiamano gli abitanti di Mosca? Moschini, mosconi, moschetti…”.
Il panico. Dopo cinque minuti la custode tornò con un altro biglietto. La collega, con la sua elegante calligrafia, aveva scritto “Moscoviti”. E Sara si calmò e sorrise. In fondo, anche lì in quella strana terra di Maremma, in quelle campagne assolate, le risposte arrivavano. Un giorno anche la Madonna delle Grazie l’avrebbe fatta tornare a Napoli. Forse.
Fulvia Perillo