Ci sono eventi minuscoli che rivelano mondi interi, come se certi particolari aprissero una fessura che diventa squarcio e da lì entrassero luce e ombra.
Noi Prudenti, come dice mia sorella Desdemona, siamo particolarmente sensibili e osservatrici. Così capita che piccoli accadimenti o forse anche meno, solo puntiformi segnali, significhino ai nostri occhi qualcosa di importante.
Quando conobbi Filippo, avevo ventitré anni e mi stavo per laureare con una tesi (che venne successivamente pubblicata) sul pessimismo in Schopenhauer.
“La vita è un pendolo tra il dolore e la noia”, un detto che mi piaceva fin dai tempi del liceo. L’insoddisfazione umana e la sua impossibilità di riscatto mi avevano sempre colpito. Mi risuonava il pensiero che solo liberandosi degli orpelli del desiderio si potesse raggiungere una qual sorta di serenità.
Per questo (e per una congenita propensione), avevo fino ad allora evitato di coinvolgermi in storie sentimentali. I miei flirt non duravano più di una sera e, generalmente, i malcapitati non riuscivano a comprendere perché dopo un ballo o una cena o un cinema, non volessi più uscire con loro.
Qualcuno semplicemente mi bollava come “una un po’ strana”.
Altri, più umili ed autocritici, ritenevano di aver detto o fatto qualcosa di sbagliato. In realtà non avevano ragione né gli uni né gli altri: sapevo per intuizione e per letture che una vicenda amorosa sarebbe stata troppo impegnativa per il mio equilibrio.
E poi già mi bastavano i drammi delle Incompiute o le storie tumultuose di mia sorella.
La temperante Diana, nostra amica e biscugina, era fidanzata ufficialmente, l’unica tra di noi. Ma anche questa condizione non mi piaceva: lei e Leopoldo erano misurati e programmati come due coniugi di una certa età. Se questo era l’amore, certo non era cosa per me. L’anello di fidanzamento non mi attirava così come mi faceva un po’ effetto quella giovane coppia così granitica.
Però, è pur vero che anch’io ero una ragazza di ventitré anni e dunque non del tutto insensibile al fascino del grande amore.
Era l’inizio luglio dell’84 e mi trovavo a Siena, dato che alla fine del mese avrei avuto finalmente la tanto agognata seduta di laurea.
I miei studi erano stati velocissimi, a giugno avevo finito gli esami e la tesi, a cui lavoravo da un anno, era praticamente pronta.
Stavo attraversando quella fase magica che intercorre tra il completamento del ciclo di studi e la discussione della tesi, non un limbo, come la definisce qualcuno, ma un vero e proprio nirvana.
Momenti in cui ti senti a posto con te stessa, ma non hai l’assillo di trovare un lavoro che inizierà dopo la laurea.
In quei giorni mi sembrava di camminare a un metro da terra.
La mia pelle era distesa e luminosa (non abbronzata, perché vado in spiaggia solo d’inverno) e i riflessi biondi dei miei capelli brillavano sotto il sole caldo che splendeva sui preparativi del palio.
Non essendo senese, vivevo l’evento con un coinvolgimento relativo, anche se l’atmosfera di attesa coinvolgeva anche gli studenti fuori sede come me.
Fu proprio il 2 luglio che incontrai per la prima volta Filippo, casualmente, mentre cercavo una collega di corso che doveva restituirmi un libro.
Nei pressi di Piazza del Campo, pur essendo ancora mattina, c’era già moltissimo movimento e si sentivano rullare i tamburi.
La mia amica non si vedeva, così mi decisi a sedermi in un bar a bere un’aranciata. Mentre, come al solito, ero immersa nei miei pensieri, a un certo punto sentii qualcuno che si rivolgeva a me.
“Ciao”. Un bel ragazzo abbronzato e sorridente mi stava parlando.
“Posso sedermi qui con te?”
In un altro momento avrei sicuramente detto di no, ma quello era un periodo di grazia, così abbozzai un sorriso e lo invitai a sedere.
Anche lui non era di Siena. Era fiorentino e quel giorno era venuto a vedere il palio con alcuni amici.
“E invece, ecco, mi sei apparsa tu, come una madonna d’altri tempi, con un aspetto dolce e delicato”
Ero perplessa. Certo che non perdeva tempo. Ma la sua bellezza e il garbo dei modi mi impedirono di trattarlo male e così parlammo tutto il pomeriggio.
Mi raccontò dei suoi studi di giurisprudenza, anche lui era prossimo alla laurea, e della sua famiglia, i genitori e un fratello più piccolo, che ancora frequentava il liceo.
Anche il mio nome lo colpì moltissimo.
“Ma come, ti chiami proprio Giulietta e non Giulia? E’ la prima volta che conosco una ragazza dal nome così romantico”
“Il fatto è che mia madre insegna inglese e così ha scelto due nomi shakespeariani per me e per mia sorella che si chiama Desdemona”
Fu molto divertito da questo fatto e ammirato dalla cultura che sicuramente si respirava a casa mia.
Il palio fu appassionante, lo seguimmo insieme in una piazza gremita.
Vinse la contrada dell’Oca e ne fui felice, perché abitavo lì.
La sera, così, insieme al mio nuovo amico, festeggiammo a lungo per le strade di Siena, contagiati dal giubilo e dall’entusiasmo dei contradaioli.
Filippo mi accompagnò a casa verso le due di notte e mi dette un bacio leggero sulle labbra prima di vedermi sparire nel portone.
Nei giorni successivi ci sentimmo spesso per telefono, gli raccontavo della mia tesi, della grande passione che mi suscitava il pensiero di Schopenhauer e lui disse che gli piaceva moltissimo.
Il sabato seguente io non tornai a Grosseto e Filippo venne a trovarmi.
La giornata fu ancora più gradevole della prima volta.
Pranzammo in un ristorante nel centro della città gustando specialità tipiche toscane che conoscevamo bene entrambi, ma che avevano un sapore nuovo dato il nostro incredibile feeling.
Non avevo mai creduto nei colpi di fulmine e invece…
Il moretto fiorentino mi aveva conquistato al primo sguardo.
Era anche molto educato, non insisteva per salire in casa mia, cosa decisamente inconsueta, ma, alla sua terza visita, fui io stessa a farlo salire.
Le cose sembravano andare per il meglio.
Il giorno della laurea, il 12 luglio, si presentò in facoltà, elegante e disinvolto.
Volle essere presentato ai miei (come un amico, precisai) che erano piuttosto meravigliati. La più stupita era Desdemona, mentre mia cugina Martina, più simile a me, sapeva che le Prudenti possono avere segreti interessanti. E Filippo, in effetti, lo era.
Andammo a pranzo tutti insieme.
Conversò amabilmente con mia madre, scherzò con mia sorella e fu molto deferente con mio padre.
Poi io tornai a Grosseto e lui a Firenze. Aveva l’ultimo esame da dare a fine mese e ci saremmo rivisti in agosto, quando sarebbe venuto a trovarmi al mare.
Nel 1984, ancora non esistevano le mail né internet.
La comunicazione avveniva di persona o al telefono, ma qualcuno, come ad esempio, aveva ancora l’abitudine di scrivere lettere.
Lanciai l’idea che il mio innamorato trovò gradevolissima.
Così ci scambiammo alcune missive, con le buste bianche, antiche, affrancate. Strano, ora sembrano cose d’altri tempi. Eppure non si parla della preistoria.
L’espressione verbale di Filippo era senza dubbio più felice di quella scritta. Si esprimeva in modo poco fluido, con qualche virgola che sembrava caduta casualmente nel punto sbagliato del discorso e con periodi troppo lunghi e convoluti.
Provai una piccola delusione alla prima lettera, ma poi mi dissi che non tutti avevano la mia predisposizione per lo scrivere, anche se mi sarei aspettata di più da uno che si apprestava a diventare avvocato.
Ma la seconda lettera mi gelò.
Qualcuno può pensare che la questione riguardasse la sostanza dello scritto. Forse una discrepanza di opinioni? Un passo indietro rispetto ai sentimenti? No, niente di tutto questo.
Filippo, nelle sue quattro pagine piuttosto farraginose, si era messo ad elogiare la mia esposizione della tesi e di quanto gli ero apparsa colta e disinvolta.
E dunque, cosa non andava? Sono bei complimenti, no?
Non andava il fatto che per ben tre volte, parlando della mia tesi di laurea, Filippo aveva scritto Schopenhauer in modo scorretto, senza la c. Insomma, era diventato Shopenhauer, scritto all’inglese, come se ne avesse solo sentito parlare, ma non l’avesse mai studiato.
Ne parlai con Martina che, nonostante fossimo così simili, non riusciva a comprendere. “Davvero, credo che tu stia ne facendo una questione un po’ eccessiva. In fondo, non è necessario che tutti conoscano Schopenhauer”.
“No, non lo è, hai ragione. Ma il fatto è che lui si è presentato come un giurista appassionato di filosofia, in particolare di Schopenhauer”
“Ma l’ha detto lui oppure sei stata tu a parlarne per prima?”
“Beh … io. Gli ho raccontato della tesi. Ma lui sembrava così compreso, partecipe”
“Dai, non drammatizzare, non tutti sono precisi come te”
“Sì, ma Filippo si è sbagliato per tre volte. È proprio convinto che sia scritto Shopenhauer, senza la c. Guarda, lo dico e mi fa impressione”.
Nei giorni seguenti, il tarlo del dubbio cominciò a rodermi.
Mi resi conto, tra l’altro, che lui non mi aveva mai detto di andare a Firenze, nemmeno per inciso.
Non avevo trovato strano questo fatto fino a quel piccolo errore… Che, però, pareva rivelarmi un mondo. O piuttosto segnalarlo.
Stava a me decidere che fare.
Per telefono non accennai minimamente alla c mancante nel nome del filosofo. Semplicemente mi informai sull’esame che doveva dare.
Procedura civile, il 26 luglio.
Benissimo – pensai – gli farò una sorpresa.
Così, la mattina presto del 26 presi il pullman per il capoluogo toscano e mi recai nella facoltà di giurisprudenza, dove però non risultava esserci alcun appello di procedura civile fissato per quel giorno.
La mia mente turbinava. Cosa stava succedendo? Avevo forse sbagliato data? Ma no, ne era certa, avevo pensato che era il giorno di Sant’Anna, onomastico della mia nonna paterna.
Non mi rimaneva altro che recarmi a casa di Filippo. L’indirizzo lo conoscevo, avevo inviato due lettere in quel breve lasso di tempo trascorso dalla mia laurea.
Giunsi al palazzo situato nei pressi di piazza della Libertà e suonai il campanello con un batticuore insopportabile.
Mi aprì un ragazzo piuttosto simile a Filippo, solo più giovane.
“Ciao – gli dissi – tu devi essere Lorenzo”
“Sì – rispose sorridendo – E tu chi sei?”
“Giulietta, un’amica di Filippo. Ero andata a cercarlo all’università, ma non l’ho trovato”
“All’università? – l’altro, sbigottito – Certo che non l’hai trovato, l’ha lasciata da due anni, tanto non dava esami”
“Ah – feci io – allora ho capito male”
“Comunque lo puoi trovare alla rosticceria dei miei genitori, è qui vicino, lavora lì. A quest’ora è sicuramente lì, c’è il pienone. In questo periodo poi, con tutti i turisti che ci sono. I giapponesi in particolare adorano la cucina di mia madre”.
Non dovevo avere un’aria molto intelligente, mi sentivo frastornata.
Rosticceria. Università abbandonata. Schopenhauer senza c. Cosa c’era ancora da sapere?
La risposta giunse immediata.
“Ma sei un’amica di Patrizia, per caso?”
“Patrizia?”
“Sì, la ragazza di Filippo”
Il mio sguardo si fece ancora più fisso.
Lorenzo si accorse della mia reazione.
“Vuoi un bicchiere d’acqua?”
“Sì, grazie”
Mentre bevevo, seduta in cucina, il ragazzo mi guardò e, dopo una breve riflessione, disse: “Ho capito, mi dispiace. Il mì fratello deve averne combinata una delle sue”.
Passai velocemente dalla rosticceria, per verificare che non fosse un sogno (brutto) ciò che stava accadendo.
Filippo era dietro il banco con grembiule e cappellino che serviva.
Una procace ragazza dai grandi seni e con occhi scurissimi (praticamente il mio opposto) sedeva alla cassa.
Lui, che non mi aveva ancora visto, le si rivolse: “Patrizia, tesoro, fai il conto al signore. Son tre porzioni di lasagne e mezzo pollo con le patate”.
Alla fine della frase, si voltò e mi vide.
Sbiancò in volto.
“Ciao, Filippo” Io, sorridente.
“Oh ciao. Che fai da queste parti?”
“Niente, passavo. Ho detto: guarda, voglio fare un saluto a Filippo”.
Per un attimo, pensai di insultarlo, poi, invece, mi girai verso Patrizia.
“Ciao – le dissi gentilmente – io sono Giulietta, un’amica di Filippo, ci siamo conosciuti al Palio. Sono venuta a Firenze a trovare il mio fidanzato che deve dare un esame all’università. Allora, mentre lo aspetto, ho pensato di passare a fare un salutino”.
“Ah, bene – fece lei cordialmente – Vuoi fermarti a pranzo?”
“No, grazie, devo andare, sarà per un’altra volta”.
Sull’autobus che mi riportava in Maremma pensai che, come al solito, dovevo ringraziare Schopenhauer (con la c), perché in fondo era merito suo se la mia intuizione mi aveva consentito di smascherare il galante rosticcere. In fondo non mi dispiaceva neppure, si era trattato di una breve illusione. Non mi ero innamorata di lui, ma di qualcuno che non esisteva. La Prudenza, virtù cardinale che ero solita praticare, mi aveva consentito di aprire gli occhi in breve tempo, grazie a quel piccolo errore, quasi impercettibile.
Il peggio era per Patrizia, pensai: l’aspettava una vita da cornuta.
L’avevo scampata bella.
La sera, con Martina, Desdemona e le Incompiute uscimmo a cena e mia sorella ammise che ero stata brava: lei, pur essendo psicologa, non aveva sospettato nulla il giorno della laurea.
“Sorella mia – le risposi – il fatto è che i filosofi mi aiutano sempre. Il mio Arthur (Schopenhauer) mai mi avrebbe lasciato in balia di un bugiardo patologico”.
La serata terminò con un doppio brindisi alla Prudenza e alla Filosofia.
Fulvia Perillo