In un tardo pomeriggio di fine settembre, il lungomare di Viareggio pare assopito in una sorta di pigro languore. Due uomini siedono al tavolo di un bar, all’aperto, mentre una leggera brezza che viene dal mare agita la bandiera del vicino stabilimento balneare che ha tutta l’aria di aver già chiuso la stagione.
L’uomo più robusto, elegante nel suo pantalone casual chic con Lacoste dello stesso colore, apostrofa l’amico sorseggiando il suo bicchiere di birra: – Insomma, si può sapere che diavolo ti è successo, Roberto? Ti conosco da quando avevi i calzoni corti ma ti giuro che non ti ho mai visto così sconvolto. Dimmi la verità, hai combinato qualche guaio in ditta?
L’altro, magro e pallido in viso, abbassa gli occhi tormentando con mani nervose la tazzina del caffè che non riesce ad avvicinare alle labbra: – No, Ruggero, non è come pensi tu.
– Ho capito, ti sei messo nei casini per via di una donna.
– Ma figurati, ti sembro il tipo?
– E allora dimmelo tu. Va bene che sono il tuo migliore amico ma questo non ti autorizza a farmi venire di corsa da Pisa per giocare agli indovinelli.
– Scusami, hai ragione. Se mi prometti di non chiamare il Centro di Igiene mentale, ti racconto tutta la storia. Ma mi devi promettere che mi ascolterai senza interrompermi.
– Va bene, sono tutt’orecchi.
– Ecco… forse è meglio che incominci dall’inizio. Ossia da ieri mattina, quando il Mercedes mi ha lasciato a piedi per via di quella maledetta cinghia di trasmissione. Insomma, erano già le otto e mezzo e alle undici avevo fissato un appuntamento con dei clienti di Prato. L’unica cosa da fare era correre alla stazione e prendere il primo treno per Firenze. E così ho fatto.
– Chissà come ti giravano i coglioni…
– Non più di tanto. Che cosa dovevo fare? Mi sono comprato un giornale e ho aspettato l’arrivo del treno. Per fortuna, non è passato più di un quarto d’ora. In fondo, mi son detto, non tutti i guasti vengono per nuocere. Meglio fare un viaggio comodamente seduti su un treno di pendolari che starsene incolonnati in autostrada in mezzo a schiere di automobilisti incazzati. Così, cullato dallo sferragliare delle rotaie, ho approfittato di quel fuori programma per tirar fuori il portatile e aggiornare le schede dei clienti. Ormai ero rassegnato ad arrivare in ritardo e ti confesso che l’idea di una pausa non mi dispiaceva per niente. Comunque, la pace è durata poco. A Lucca sono saliti diversi viaggiatori e ho dovuto togliere le gambe dal sedile di fronte, dove si è seduta una signora dall’aria molto stanca.
– Eccoci, volevo ben dire io, che era una questione di donne! – esclamò l’altro sollevando il boccale di birra con un gesto trionfante.
– Ma che hai capito, Ruggero? Guarda che non è successo niente di quello che pensi tu. Cioè, voglio dire che era una bella donna: alta, con i capelli lunghi color rame e due occhi verdi grandi come…
– Come i fanali di una Porsche Carrera?
– Ma che dici? Aveva uno sguardo talmente depresso che quasi quasi stavo per prestarle il mio fazzoletto e per invitarla a piangermi sulla spalla. Invece, ho fatto finta di nulla e ho continuato ad aggiornare il mio archivio.
– E lei?
– Continuava a fissare un punto lontano fuori dal finestrino e a tormentarsi il collo della giacca con certe mani bianche… Poi, a un tratto si è girata e i nostri sguardi si sono incrociati.
– Tombola! L’hai colpita con il tuo charme da vitellone delle notti versiliane.
– Per piacere, Ruggero, non mi interrompere. Dunque, siamo rimasti a quando lei mi ha sorriso. Ma guarda che non era per niente allegra. Anzi, aveva un modo di socchiudere le labbra che mi ha fatto venire una gran pena.
– E tu non ti sei preoccupato di consolarla? Roberto mio, non ti riconosco più.
– Che dovevo fare? Ho sorriso anch’io e poi, come succede in questi casi, una parola tira l’altra.
– Ah, ecco. Volevo ben dire.
– No, aspetta. Non è andata come tu credi. Insomma, lasciami raccontare. Ci siamo messi a parlare del più e del meno. Prima del tempo, poi dei disagi dei pendolari e infine le ho raccontato la mia disavventura con la cinghia del Mercedes.
– Sai come si deve essere eccitata!
– Accidenti a te, Ruggero. Guarda che la storia che ti sto raccontando non è affatto piccante. Ti assicuro che quella donna non era una che stuzzicava il genere di fantasie che pensi tu. Faceva piuttosto tenerezza. Ecco sì, una tenerezza mista ad una pena, come dire?, inquietante.
– Avevo ragione: sei un uomo finito.
– Aspetta, ora viene il bello. Dunque, fra una chiacchiera e l’altra, quasi senza accorgersene, ci siamo ritrovati alla stazione di Pistoia. Ma qui, non c’è stato verso di ripartire. Anche il treno aveva deciso di guastarsi la stessa mattina del mio fottutissimo Mercedes. Era evidente che il destino si divertiva sadicamente ad accanirsi su un povero rappresentante di commercio. Colpevole soltanto di voler vendere una partita di affettatrici professionali troppo costose a un paio di ingenui alimentaristi pratesi. Ma la mia compagna di viaggio non si è turbata minimamente. Anzi, mi è sembrata addirittura contenta di quell’incidente imprevisto, tanto che non ha esitato a invitarmi a casa sua a prendere un caffè. Mentre scendeva sfiorando il predellino del treno con passo lieve, mi ha detto che abitava a due passi dalla stazione e mi ha rassicurato che avrei potuto aspettare comodamente il treno successivo e arrivare a Prato quasi in orario.
– Hai capito, il vecchio marpione? Hai approfittato del guasto per imbroccare la viaggiatrice depressa, eh? E invece di pensare alle affettatrici…
– Mi dispiace deluderti, Ruggero. Le cose sono andate in tutt’altro modo. Ma se continui a interrompermi, non saprai mai come è finita questa storia incredibile.
– Incredibile in che senso?
– Ascoltami in silenzio e giudica tu. Dunque, appena scesi, lei ha imboccato un vicolo poco distante dalla stazione e si è fermata davanti al portone di un palazzo piuttosto malconcio. L’ha aperto con una chiave di quelle che usavano prima e mi ha fatto strada su per le scale. Infine, dopo due rampe piuttosto ripide, mi ha fatto entrare in un appartamentino vecchio ma dignitoso. Ti dirò, sembrava che non ci abitasse nessuno perché c’era aria di chiuso e i mobili erano polverosi. Ma non ci ho fatto caso e mi sono seduto in salotto.
– È lì che è successo il fattaccio?
– Ma che dici? Abbiamo preso il caffè e ci siamo fumati una sigaretta. Proprio come due vecchi amici. Dopo una ventina di minuti, l’ho salutata ringraziandola per l’ospitalità e me ne sono tornato alla stazione, dove ho preso il treno che finalmente mi ha portato a Prato.
– Tutta qui la tua avventura? – fece Ruggero, chiaramente deluso.
– Eh no, caro mio! È a questo punto che sono rimasto fregato dal terzo inconveniente della giornata.
– E sarebbe?
– Dopo aver rifilato ben cinque affettatrici agli alimentaristi pratesi, ho scoperto di aver lasciato il cellulare a casa della mia compagna di viaggio.
– Accidenti… e come hai fatto?
– Sono tornato di nuovo a Pistoia e sono corso nel vicoletto, con la speranza di trovarla in casa.
– E l’hai trovata?
– Macché! Ho suonato diverse volte ma non mi ha risposto nessuno. Il palazzo sembrava disabitato. Ma, proprio mentre stavo per rassegnarmi a ricomprare il cellulare, da una finestra del primo piano, si è affacciata un’anziana signora che mi ha chiesto chi stavo cercando. Mi sono sentito riavere. Ma, quando le ho spiegato della visita della mattina, lei mi ha guardato stralunata, poi ha scosso la testa e mi ha fatto cenno di salire. Pochi istanti dopo ero seduto nel suo salottino ma, stavolta, lo stralunato ero io.
– E perché mai? Che ti ha detto di tanto sconvolgente?
– Semplicemente che, secondo lei, quella mattina io non potevo essere stato al piano di sopra perché quell’appartamento era chiuso da vent’anni. Ossia da quando la proprietaria, che era sua sorella, era morta tragicamente vicino a Lucca, gettandosi da un treno in corsa. Ti rendi conto, Ruggero? In quel momento mi è sembrato di essere improvvisamente impazzito o di aver sognato tutto mentre dormivo in treno.
– Sei sicuro che la vecchia non fosse pazza?
– Non lo so. Ricordo soltanto che mi è venuta una gran voglia di scappare via. Ma quella sembrava che non avesse nessuna intenzione di lasciarmi andare e continuava a raccontarmi di quanto era bella e infelice quella sorella che si era ammazzata per una delusione d’amore. Credevo di essere diventato pazzo anch’io. Allora ho tagliato corto e ho fatto il gesto di andarmene. Ma, mentre stavo per scendere le scale, dal piano di sopra è risuonata all’improvviso una musichetta che conoscevo bene: le note di Profondo rosso, che mio nipote si era divertito a inserirmi come suoneria del mio cellulare.
– Ehi, vuoi scherzare?
– Ti assicuro che non ne ho nessuna voglia. Ti assicuro che in quel momento mi sono sentito gelare. Proprio come se una lama delle mie affettatrici mi avesse accarezzato la schiena.
– Immagino che tu te la sia data a gambe…
– L’avrei fatto sicuramente se la vecchia non mi avesse preso per un braccio e non mi avesse spinto su per le scale.
– E tu non hai reagito?
– E che cosa dovevo fare? L’ho seguita e mi ha portato nell’appartamento dove ero già stato la mattina. Non ti dico come mi sono sentito quando non riusciva ad aprire la porta perché la serratura era arrugginita. E vedessi quanta polvere c’era in salotto!
– Mi sembra proprio una storia assurda. Sei sicuro di non esserti fatto una canna?
– Aspetta, lo so che tu pensi che io sia ammattito ma ti giuro che sul tavolo c’erano le stesse tazzine nelle quali io e lei avevamo bevuto il caffè quella stessa mattina. E ti dirò di più: nel posacenere c’erano anche le due cicche delle sigarette che avevamo fumato insieme chiacchierando del più e del meno.
– Non è possibile, dai! Di sicuro è stato un caso di suggestione.
– Suggestione un accidente! Avrei voluto vedere te al posto mio. Mi tremavano le gambe e ho incominciato a sudare freddo. E intanto la vecchia continuava a mostrarmi i mobili della sorella. Poi a un tratto l’ho visto.
– Chi?
– Ma il mio cellulare, no? Se ne stava, ormai muto, sulla sedia dove mi ero seduto la mattina. A quel punto ho perso la testa. L’ho afferrato e ho infilato la porta. Ho fatto le scale di corsa e, una volta in strada, mi sono messo a correre all’impazzata con la borsa del computer che mi sbatteva sul polpaccio. Francamente non ti so dire come abbia fatto a salire sul treno e a tornarmene a Viareggio.
– Accidenti, Roberto, che storia! Sei sicuro che non si sia trattato di un incubo? Magari hai mangiato pesante, poi ti sei addormentato e…
– Lo sapevo che non mi avresti creduto. Mi domando perché ti abbia raccontato questa storia assurda. Cameriere, il conto, per favore.
– Lascia stare, offro io. Senti, Roberto forse è il caso che tu prenda un po’ di ferie. Credo proprio che non ti farebbe male una bella chiacchierata con quel dottore di Pisa. Sì, quello che ti curò quando ti venne quel brutto esaurimento nervoso.
I due amici si alzano dal tavolo. Ruggero dà una pacca protettiva sulla schiena di Roberto e insieme si avviano verso il parcheggio mentre i primi lampioni si accendono a illuminare il lungomare quasi deserto.
– Allora, stammi bene e dai retta a me: ci deve essere una spiegazione logica. Anzi, guarda, non ci pensare più.
– Già, è come dirlo.
E mentre cerca le chiavi dell’auto che gli ha prestato il suo meccanico di fiducia, dalla tasca dei pantaloni cade un oggetto metallico che finisce sul marciapiedi.
Istintivamente, Roberto si china per raccoglierlo. Ma, prima ancora di vedere sa già di che cosa si tratta. È l’accendino della sua compagna di viaggio che lui ha distrattamente messo in tasca dopo essersi acceso la sigaretta.
Laura Vignali
tratto dal libro Il fumo uccide