Questa seconda edizione del Canzoniere di diverse stagioni di Mena De Luca, pubblicata presso l’editore Effigi di Arcidosso (Grosseto), si differenzia dalla prima, edita nel 2014 da Tassinari, per una nuova sezione (La città nuova: verso casa) che contiene le poesie di più recente composizione e per l’aggiunta di poesie più arcaiche ma inedite. In tutto 92 testi distribuiti in tre sezioni (Prime Stanze, Primavera di sangue: nuove conversazioni, La città nuova: verso casa).
Ciò che fa capire al lettore quanto sia costitutivo, direi vitale, per Mena De Luca il fare poesia e quanto quindi sia lontana da lei una concezione della poesia come improvvisazione o sfogo estemporaneo è la presenza in questa raccolta di numerose riflessioni, ben sei, su cosa intenda per poesia: Canzoniere di diverse stagioni, Poetare I, Poetare II, Giorni d’ospedale, Voci di poeti, La mia scrittura poetica. La più importante è la dichiarazione di poetica costituita dal testo che dà il titolo alla raccolta e che si trova come incipit di questa seconda edizione. Come talvolta accade ai poeti, la presa di coscienza del proprio fare poetico non avviene al debutto, ma dopo, in una fase avanzata del proprio percorso creativo, nel suo caso a quasi vent’anni dalle prime prove incluse in questa raccolta (le cd. Prime Stanze). Le esperienze della vita hanno chiarito in lei le ragioni e i modi del fare poesia. Poetare non è primamente intuizione o espressione immediata, quasi inconsapevole, è “pensiero”, “materia pensata”. Un ossimoro che racchiude i due registri su cui si gioca il poetare, la leggerezza con cui si accosta all’esistenza, (“pensiero leggero/leggero, lieve sulle cose”, vv.1-2) e la pesantezza, la densità, la consistenza materica del vissuto tradotto in parola, che si deposita “greve sul cuore” (v.3); questa capacità della poesia di trascorrere leggera sulle cose ma entrare a fondo nel cuore, è frutto di una parola che deve esser “grave: come sasso.” (vv.3-4). La paronomasia chiarisce con estrema finezza linguistica la complessità della creazione poetica e della sua rifrazione emotiva, non a caso sia grave che greve derivano dal gravis latino ma il secondo aggettivo è frutto dell’incrocio tra gravis e levis: ritornano le due caratteristiche iniziali, pesantezza e leggerezza: il poetare è un pensiero leggero che preme sul cuore ma senza sfiancarlo. La parola poetante, se possiede una componente di meditazione, di riflessione che dà ordine all’informe, al caos magmatico istintuale, perché è “parola/ che forma” (vv.7-8), non può tuttavia ridursi alla sola funzione di chiarificazione, di ordine, di logos dell’esistente, ma ne deve esprimere anche la caratteristiche opposte, diventare parola che rivela e comunica la passione, l’emozione, sia essa pesante (“parola che grida”, v.5) o leggera (parola che) “sussurra” (v.6). Deve quindi toccare ogni gradazione del vivere, indagare ed esprimere con precisione i polimorfi aspetti dell’esistenza umana, percorrere i diversi livelli emotivi dell’essere umano, ma abbisogna di qualcuno che la faccia diventare udibile, che la tolga dal limbo dove una società, aliena da ogni utilizzo troppo pensato e interiore della parola, l’ha relegata, che ascolti la “voglia/sua stessa di esistere” (vv.13-14).
Questo è compito di quegli esseri strani, considerati sovente con ironia o sospetto dall’opinione pubblica, che chiamiamo poeti. Quest’aulica qualifica, per secoli onorata, è oggi in evidente declino. Un poeta non fa audience e non arricchisce il suo editore. Men che meno se stesso. Tuttavia oggi più che mai abbiamo bisogno di loro. In ispecie se il loro voler essere poeti non è motivato da esibizionismo, snobismo intellettualistico, dilettantismo e pretenziosità. Perché fare poesia, per assurdo, oggi sembra maledettamente facile. Quante centinaia di poeti improvvisati riempiono rassegne locali o riviste culturali? Tuttavia se si pubblica tanta poesia, se ne legge pochissima. Per quale ragione? Nel luglio 2011 Alfonso Berardinelli in un articolo sul Corriere della Sera affermava che il 90% di ciò che si legge nelle collane di poesia e nelle antologie è da dimenticare… perché oggi (e da tempo) la poesia italiana è prevalentemente divisa in due tipi: c’è quella incomprensibile e c’è quella noiosa. Più avanti cercando di tracciare le coordinate che inquadrano un testo poetico di qualità, operazione in verità assai ardua, Berardinelli affermava risolutamente che la tecnica è tutto, quando si sa che cosa dire o non dire. Come ai tempi di Saba resta da fare “la poesia onesta”, perché…non può essercene altra. Condivido queste affermazioni ed è per questo che apprezzo la poesia di Mena De Luca. In lei ritrovo tecnica e onestà, la capacità apparentemente naturale, di creare versi che rimandano a cadenze e sonorità di antenati illustri, studiati (tecnica) e amati e empaticamente, fatti propri come compagni di vita e lavoro, di gioie e sofferenze, non solamente imitati esteriormente (onestà1). Se biograficamente, il suo profilo può prestarsi al rischio di cadere nel cliché del poéte maudit (il disagio psichico, gli amori infelici, la sofferenza fisica, l’isolamento, l’emarginazione), da questa stereotipizzazione si esce subito rendendosi conto, nel leggere le sue poesie, come la vita l’abbia segnata ma non per essere rifiutata, sibbene per vedersi riaffermati i propri diritti. Emerge, cristallina, la qualità poetica del suo opus, la capacità di trasformare le esperienze personali in emozione condivisa, la sensibilità acuta nel dosare i versi, gli incipit incisivi, le chiuse inaspettate.
In lei non c’è banalità né voyeurismo linguistico ma sapiente labor limae, attenzione suprema a conciliare suono e significato. E soprattutto tanta sincerità nei confronti del lettore, nessuna ipocrisia o volontà di nascondersi, nessun autocompatimento o pietismo: le sue sono solo “parole/ di verità”. (Voci di poeti vv. 3-4)
Massimo Pellegrini
Docente di lettere
Liceo scientifico “Leonardo da Vinci” – Trento
—
1 Interpreto il concetto di onestà in un’accezione più ampia di quella sabiana. Sul concetto di onestà in Saba cfr. Umberto Fiori Che cos’è la “poesia onesta” di Saba? In La poesia è un fischio. Saggi 1986-2006, Marcos y Marcos, Milano, 2007.