Non avrei mai pensato di potermi ritrovare in una situazione che, per molti versi, mi ricordava il film “Attrazione fatale”.
Devo dire, tra l’altro, che mi era sembrato poco realistico. Quale donna avrebbe potuto essere tanto insistente e aggressiva come Glenn Close dopo una breve insignificante avventura?
Nessuna – pensavo.
Invece poi conobbi Maristella, con questo nome da fotoromanzo – pensai conoscendola.
Ci eravamo visti per la prima volta a una festa di compleanno.
Noi eravamo gli amici spaiati, io per una recente dolorosa separazione (la mia dolce mogliettina mi aveva lasciato per mettersi col suo parrucchiere che io credevo gay). Maristella, invece, era divorziata da qualche anno e di nuovo separata dal suo compagno post-matrimonio.
A quel tempo, era il 1998, io avevo quarantadue anni e lei trentanove.
Perfetti, secondo gli amici che ci avevano invitati.
Io avvocato, lei commercialista.
Di vista la conoscevo, ma non mi aveva mai fatto una grande impressione. Un po’ scialba fisicamente, niente di che, e anche piuttosto riservata. Non capivo come potesse aver avuto una vita sentimentale agitata, come riferiva la sua amica Carla, padrona di casa e organizzatrice della festa.
“Emanuele – mi aveva detto – guarda che Maristella è una ragazza molto simpatica e intelligente. E poi è anche carina, non è appariscente, ma ha stile”.
“Mah – le avevo risposto – a me dice poco”.
In effetti, però, nel corso della serata mi capitò di parlare con lei e la trovai molto più divertente di come avrei immaginato.
Ridemmo insieme diverse volte e Maristella si dimostrò brillante e dotata di una sottile ironia.
Come fu, come non fu, dopo la festa lei mi invitò a bere qualcosa a casa sua e… no, via, non entro nei particolari, ma insomma…
Non era timida, diciamo. Neppure riservata. Una sorpresa, direi.
Me ne andai al mattino presto, era domenica, e, uscendo, pensavo che non fosse stata una buona idea. Magari ne avrebbe parlato a Carla ed io ero troppo provato per fidanzarmi.
E poi non era neppure il mio tipo. A me piacevano le donne alte e con un bel seno, come la mia ex.
Maristella era magrolina, non superava il metro e sessanta e per di più era pure bionda, mentre io avevo sempre avuto un debole per le more.
Il lunedì all’ora di pranzo squillò il telefono di studio ed era lei.
La sera ci vedemmo di nuovo e poi anche il mercoledì e il venerdì.
A quel punto la faccenda stava prendendo una brutta piega.
Tra l’altro, avevo la sensazione che ne avesse parlato con Carla, dato che il marito di quest’ultima, commercialista con cui giocavo a calcetto, aveva fatto qualche vaga allusione.
Eh no, basta – dicevo tra me – questa storia deve finire subito.
La domenica sera ci incontrammo a casa mia e le comunicai la mia decisione. Una tragedia. Pianti e strepiti, finiti poi con un ennesimo (e devo dire piacevolissimo) passaggio d’alcova.
Ma io avevo deciso.
Lei, però, non mollava.
Mi chiamava tutti i giorni. A casa, in studio. Non rispondevo o mi facevo negare. Poi, però, lei si faceva trovare casualmente sulla mia strada e finivamo a casa mia o a casa sua. E di nuovo ci lasciavamo per sempre.
Dopo un mese di questo andirivieni, misi fine con decisione al nostro rapporto, pregandola di lasciarmi in pace.
Lei andò via tra le lacrime.
Trascorsero tre giorni di pace. Ce l’ho fatta – pensavo.
E invece mi sbagliavo.
La sera del terzo giorno, verso le otto, mentre mi stavo cambiando per andare a giocare a calcetto, sentii suonare il campanello.
Guardai dal videocitofono. Era Maristella, chi altri se no? Nessuno veniva a casa mia a quell’ora.
Ma stavolta non le avrei aperto, perdinci. Proprio no.
Abitavo all’epoca in un grande condominio che univa più palazzi grazie anche a un terrazzo molto lungo che correva sopra al tetto, dotato di scale antincendio come quelle dei film americani.
Così pensai che non avevo scampo. O le aprivo- e certo non l’avrei fatto – o dovevo scappare, di sicuro non dal portone.
Unica via di fuga era il tetto. Poi sarei sceso da un’altra parte e l’avrei seminata.
Salii di corsa al quinto piano (io abitavo al primo) e presi la via dei tetti, con in mano la borsa del calcio, cercando di fare veloce.
Già ero a buon punto del mio percorso e pensavo di averla lasciata in fondo alle scale a suonare disperatamente il campanello.
Ma non avevo tenuto conto che a quell’ora molte persone del palazzo rientravano a casa.
Maristella, approfittando del rientro dei miei vicini, li seguì mentre aprivano il portone.
Aveva la faccia di una brava ragazza così nessuno fece obiezioni al suo ingresso.
L’altra cosa che non avevo tenuto in conto, era l’intuizione della mia persecutrice che, unita alla sua terrificante volontà, le conferiva incredibili capacità percettive. Così, in men che non si dica, capì non so come che me la stavo svignando dal tetto e si precipitò su per le scale e poi sul terrazzo che sovrastava il palazzo.
La vidi, ancora lontana, ma implacabile ed ebbi un tuffo al cuore. Mi venne in mente Glenn Close e mi sentii tanto Michael Douglas.
Un sudore freddo mi scorreva sul collo, mentre la apparentemente delicata signora si avvicinava correndo all’impazzata.
Anche io correvo e mi precipitai alla scala antincendio. E lei dietro.
Non poteva raggiungermi, io avevo le gambe troppo più lunghe delle sue. Sì, certo. Solo che il panico mi aveva reso precipitoso e imprudente e, agli ultimi gradini della scala, caddi rovinosamente, sentendo subito un violento dolore alla caviglia.
Lei mi raggiunse. “Che ti sei fatto? Ti porto al Pronto Soccorso”.
“Eh no! – le risposi infuriato – piuttosto chiamo un’ambulanza!”.
Nel mentre, passò un mio vicino che, vedendomi palesemente sofferente, si offrì di aiutarmi. Gli chiesi di accompagnarmi all’ospedale, cosa che fece di buon grado e lasciai quella matta tremante e fuori di sé a piangere sul marciapiede.
Beh, sono trascorsi più di vent’anni da quel giorno, ma ancora ricordo l’arrabbiatura di quella sera, la frattura del malleolo che ne conseguì e tutte le seccature a questa connesse.
Le ricordo bene anche perché Maristella non smette mai di rammentarmi la mia fuga sui tetti e quanto sono stato sgarbato con lei.
Ah, dimenticavo di dire che viviamo insieme da vent’anni ormai e siamo sposati da sedici.
Anche se ancora non mi spiego perché: non è mai stata il mio tipo, glielo ripeto sempre.