Monica Granchi rievoca attraverso i suoi ricordi i tempi delle feste dell’Unità e del Pci di Berlinguer prima dello sfaldamento
L’inizio è quantomai “privato”, un privato di cui si viene catapultati di getto, senza mediazioni: “Mi sono ammalata di anoressia introno ai sedici anni” E questo tema torna ricorrente, con pagine dolorose ma asciutte, che per la prima volta ci fanno capire cosa sia davvero l’anoressia, cosa provi davvero chi ne ha sconvolta la vita, senza sentimentalismi e vittimismi: un debito di “conoscenza” oltre che di spietata sincerità, che dobbiamo all’autrice.
Ma il titolo non è solo messo lì per attrarre, in Mio nonno era comunista di Monica Granchi, in questa narrazione autobiografica, la dimensione pubblica è presente ovunque, sia direttamente sia indirettamente nel clima, nella cultura, nel modo di pensare che proprio negli anni 70 e poi 80 si trasforma profondamente e costituisce forse la spaccatura più notevole tra chi in quell’epoca era già adulto e che ancora entrava allora nella vita, nell’infanzia, nell’adolescenza.
Il nonno di cui nel titolo è al tempo stesso una figura realista e mitica, figlia dei ricordi più veri e trasfigurata dalla memoria e dalla nostalgia. Le feste dell’unità in cui egli – che “ricopriva l’indispensabile, eclettica funzione del tuttofare” – divertiva i più piccoli e serviva i più grandi, con quella dedizione, umiltà, partecipazione e gioia che solo una militanza politica ormai dimenticata poteva permettere, sono la cartina di tornasole per pesare la differenza tra l’ieri e l’oggi, per segnare un distacco – e una rottura – che non è solo politica, ma soprattutto psicologica ed esistenziale.
Sono gli occhi della bambina e dell’adolescente a vedere e a sottolineare cosa sta cambiando in quei dieci-quindici anni, quel passaggio segnato tra l’altro da una televisione in bianco e nero, pedagogica e un po’ bigotta, alla televisione a colori che apre la strada ai primi tentativi di televisione commerciale e di dittatura dell’auditel. Sul terreno politico è il passaggio dal Pci di Berlinguer – il “nonno” saggio di tutti la cui scomparsa è l’anticamera del crollo perché nessuno potrà reggere il confronto e inizierà la battaglia delle correnti – a quello successivo, impotente e interlocutorio di Natta e poi borioso e inconsistente di Occhetto, a marcare il divario, prima ancora in termini di valori e di comportamenti che di linea strategia e politica.
La morte di Berlinguer, anche in questo racconto autobiografico dalla cifra cosi intima, ma gettata nel mezzo di un contesto pubblico che si vuole raccontare ed evidenziare, è un passaggio epocale: “Ai funerali di Berlinguer non ci andai. Gli argini ressero e il dolore degli altri non mi travolse. Nessuno però riuscì a consolarmi di quella perdita. Nessuno si consolò mai. In qualche modo rutto ebbe fine. E un nuovo inizio.”
Lo “spirito di servizio a totale servizio di uno spirito di uguaglianza, di democrazia, di progresso reale e condiviso, di lavoro e di lotta che ci veniva proposto come modello”, che era il modo di rapportarsi del nonno, e dell’intera famiglia, con il Partito Comunista (maiuscole obbligatorie), svapora lentamente senza che nessuno se ne renda conto, come nessuno si sta rendendo conto della forte trasformazione antropologica che l’Italia sta attraversando in quegli anni.
E che viene riassunta e simboleggiata mirabilmente nella richiesta di avvicinamento (per il padre, lavoratore alle Poste e Telegrafi a Pordenone) da parte del nonno fatta al partito, e la risposta (“noi non facciamo queste cose”) che sembra oggi venire da un’epoca preistorica e non da pochi decenni. Dal comunismo come religione (“Il comunismo era stato come una religione per mio nonno .. ), a cui era inevitabilmente connaturata una dose d’infelicità. Monica cerca di uscire, come la maggior parte dei suoi coetanei, con la ricerca della libertà individuale, quella che porterà presto i giovani polacchi e tedeschi a liberarsi di un comunismo che non è religione e speranza ma potere e oppressione. Non sarà facile, e l’infelicità – questa volta personale, individuale, che non può essere risolta nella collettività – è in agguato nelle forme che Monica racconta con la forza e la sincerità di una seduta di autoanalisi.
La famiglia quella personale in modo più forte e continuo, ma anche quella politica, è il luogo della complicazione, dove l’idea di giustizia è “provare a dare a un figlio ciò che gli serve nel momento in cui gli serve” ma anche pensare che “non sia giusto dare a un figlio quello che non puoi dare all’altro”. Ed è il concetto astratto di giustizia e fratellanza “applicata con la calcolatrice che divide diritti e doveri, pregi e difetti, dare e avere, quello che uniforma tutto” a costruire la faccia negativa di un’esperienza in cui quella buona era rappresentata dall’amicizia e dalla solidarietà.
Un racconto come questo di Monica Granchi, così intimamente pubblico o forse, meglio, così pubblicamente intimo, non dà giudizi, interpretazioni, letture dell’epoca in cui è ambientata. Ma ce ne riporta gli umori, i sentimenti, le sensazioni, l’aria di cambiamento che lentamente e inesorabilmente travolgeva tutti senza che ce se ne accorgesse, senza che fosse chiaro a nessuno in quale direzione ci si stesse muovendo, quali trasformazioni ma non solo avrebbe avuto la vita individuale di ciascuno, ma anche la vita pubblica e politica che fa guardare – oggi – a quegli anni con nostalgia.
Marcello Flores – L’Unità 23/10/2013