Eufemia insegnava in una scuola di campagna.
Non era dunque strano che i suoi piccoli alunni le regalassero verdure o frutta delle loro terre o, come accadde in quell’ottobre del ‘44, una bambina particolarmente dolce, di nome Angelica, le portasse in dono una ricottina fresca, profumata dalla genuinità del gesto e dal sincero affetto che la piccola nutriva per la giovane maestra.
Si dà il caso, però, che Eufemia non gradisse il latte né i formaggi e tanto meno la ricotta che proprio non tollerava.
Questo, naturalmente, non le impedì di esprimere sincera gratitudine alla piccola, anche perché sapeva che Alfredo, suo marito da poco più di due mesi, avrebbe di sicuro apprezzato quel freschissimo regalo.
La sera stessa, infatti, lo sposo novello gustò con piacere la ricottina che costituì la sua cena e, con l’ultimo residuo di quel cibo delizioso, arricchì l’orzo con cui era solito concludere il pasto serale.
Erano davvero felici: Alfredo, per avere una moglie maestra, colta e raffinata, ma anche destinataria di prelibatezze campagnole; Eufemia per un marito bello e gentile, in grado di gioire di ogni aspetto della vita, ricottina compresa.
Era stato un matrimonio veloce, il loro, nell’immediato dopoguerra, senza festa né invitati. L’unico abito bianco che Eufemia aveva trovato era di lana, in pieno luglio, ma questo non aveva inficiato il loro entusiasmo.
Ad Alfredo, però, dispiaceva di non aver potuto regalare un anello nel breve fidanzamento (appena due mesi!) che aveva preceduto il sobrio sposalizio. A lui piacevano le cose belle e ancora ricordava quando, prima della guerra, era stato a Milano a trovare gli zii, e lì, per la prima volta, aveva ammirato vetrine di grandi gioiellerie.
Lo avevano colpito in particolare gli smeraldi, con quel magnifico colore verde, dove le luci artificiali dei negozi, si riflettevano in mille sfumature.
Aveva pensato che un giorno avrebbe regalato un anello con questa pietra alla donna che avrebbe sposato e certo, per Eufemia, con i suoi profondi occhi castani, sarebbe stato perfetto.
E invece… la guerra… le macerie… la paura… la mancanza di tante persone… il dolore…
Solo adesso stavano riemergendo da un periodo duro e oscuro, ma certo non era il momento per i gioielli. Già loro erano fortunati ad avere un tetto e un lavoro. Però, Alfredo non disperava: sarebbe venuto anche il tempo dello smeraldo.
Il suo ottimismo, che sempre l’aveva accompagnato nelle più gravi difficoltà, fu messo alla prova quando, improvvisamente, cominciò ad avere un gran mal di testa, disturbo a lui sconosciuto, e fu colto da brividi squassanti, con febbre altissima e dolori da tutte le parti.
Ma la cosa più strana era l’andamento della temperatura, altalenante, la sera saliva fino a tramortirlo, poi la notte arrivava un sudore terribile e maleodorante (“Sa di stalla” – diceva Eufemia un po’ disgustata) e la mattina, pur sfinito, stava un po’ meglio.
Alfredo, nelle dolorose notti febbrili, aveva gli incubi. Gli sembrava che una nuvola nera lo avvolgesse, perdeva la nozione del tempo e temeva di perdere la felicità raggiunta. Eufemia, con il suo garbo e la dolcezza intelligente che la caratterizzava, gli aveva fatto conoscere una dimensione sconosciuta per lui, quella dell’attenzione e della delicatezza.
Nella semi incoscienza, gli apparivano smeraldi in fuga, di cui si perdeva l’immagine e la speranza, il verde sfumava nel grigio e poi diventava tutto nero, fino al chiarore dell’alba che portava momentaneo sollievo.
Dopo alcuni giorni di sofferenza, in cui la pur robusta fibra del giovane era stata messa a dura prova, Eufemia si decise a chiamare il medico.
Il dottor Giulio Carati, un uomo maturo e di grande esperienza, arrivò nel piccolo appartamento dopo aver salito con fatica le quattro rampe di scale.
Visitò Alfredo che era ormai arreso a quel male squassante e misterioso.
“Dottore – disse con un fil di voce – lei crede che ce la farò?”.
“Mio caro ragazzo, spero proprio di sì. Ma dimmi un po’, negli ultimi tempi hai mangiato qualcosa di diverso? Bevuto latte crudo?”.
“N-no – balbettò il giovane – non mi pare”.
Eufemia ebbe un’illuminazione: “La ricottina di Angelica! Ecco cosa hai mangiato!”.
Il dottore, asciugandosi il sudore, ancora provato dalle ripide scale, si sedette nella bassa poltroncina posta ai piedi del letto: “Allora, signora Eufemia – perché alle donne bisognava rivolgersi col lei – credo proprio che suo marito sia affetto da brucellosi. Le febbri maltesi, le chiamano. La ricottina, evidentemente, era contaminata e questa è la causa di tutto”.
Alfredo giaceva sofferente e muto nel suo sudore, non lo consolava conoscere il motivo, si sentiva così debole…
Eufemia si rivolse al medico: “Come si può curare, dottore? Perché si cura, vero?”. E, preoccupata, unì le mani in una sorta di preghiera.
“Sì, la cura ci sarebbe, solo che in questo periodo a Grosseto non si trova niente, bisognerebbe andare a Siena, lì forse all’ospedale hanno il farmaco”.
“A Siena?” esclamò Eufemia. “E come, con quali mezzi?”.
In effetti, a ottobre del ‘44, non era così semplice… E, soprattutto, sarebbero trascorsi altri giorni, con Alfredo in quello stato.
“Senta, signora – continuò il medico, mentre il paziente si abbandonava sempre più alle sue fantasie funeree – possiamo provare a sentire un veterinario”.
“Un veterinario? Ma mio marito non è mica un cane!”, replicò indignata.
“Certo, non intendevo questo. Il fatto è che la brucellosi è una infezione frequente negli animali e forse un veterinario può aiutare”.
Dal suo letto di dolore, Alfredo flebilmente sussurrò: “Chiama Roberto, lui cura i cavalli”.
Il dottor Roberto Redi, amico d’infanzia di Alfredo, era un veterinario di grandi animali, lavorava nelle campagne ed era uno specialista nel far partorire mucche e cavalle.
In breve, attraverso il passaparola del vicinato, venne rintracciato.
Il giorno dopo, alla fine di un’altra nottata col febbrone, si presentarono a casa entrambi i medici, quello degli umani e quello degli animali e, al tavolo di cucina, avvenne un consulto a tre.
Sì, perché, seduta insieme ai dottori c’era anche la maestra Eufemia, qualificatasi come la prima curante del marito (adesso si direbbe caregiver).
“Suvvia – disse il veterinario – Alfredo è forte come un toro, a scuola era piuttosto somarello ed è testardo come una capra. Per cui, vedi, Eufemia, un po’ bestia lo è”.
La donna si agitò sulla sedia, non le sembrava giusto sminuire così il suo affascinante consorte.
“Insomma, Roberto, cosa ci proponi?” – intervenne il dottor Carati, piuttosto contrariato di aver dovuto di nuovo fare quattro piani a piedi sbuffando, mentre il veterinario, giovane e atletico, saliva gli scalini a tre a tre.
“Guarda, Giulio, ho un farmaco che generalmente do ai cavalli, un po’ forte, certo, ma Alfredo è giovane e sano, lo reggerà”.
“Domandiamo a lui se è disponibile”, disse Eufemia.
Alfredo era sfinito, aveva trascorso la notte con la febbre a quaranta, pensando che non ci fosse alcuna possibilità, nessun futuro. Sua moglie non solo non avrebbe avuto l’anello con smeraldo, ma neppure il marito, ucciso da una ricottina.
Quando Roberto gli propose la cura da cavalli, non ebbe un attimo di esitazione, avrebbe affrontato il rischio. “O schianta il verme o mòre la creatura”, aggiunse eroicamente.
Eufemia era atterrita.
E lo fu ancora di più quando Alfredo, una volta assunto il farmaco, sembrò stare ancora peggio. Dal giorno seguente, però, le sue condizioni migliorarono, tanto che nel giro di pochi giorni poté tornare al lavoro e riprendere la vita di sempre.
Ci fu però un curioso effetto collaterale. Per qualche tempo, durante e dopo la cura veterinaria, prese a urinare verde, ma un verde assolutamente brillante e artificiale.
Ne parlò con Eufemia che, con una certa riluttanza, accettò di vedere quel liquido organico dal colore insolito.
“Guarda, Alfredo – disse il medico degli animali – non è niente, un banale effetto collaterale, anche se solo tu potevi fare pipì color smeraldo!”.
A quelle parole, Alfredo si illuminò: era un segno. Non aveva potuto regalare un gioiello alla moglie, ma quella rocambolesca guarigione colorata di verde acceso li rendeva felici entrambi.
Per il momento, si era materializzato il colore, poi, un giorno, sarebbe arrivato anche l’anello: verde come la speranza, splendente come l’amore, prezioso come la cura.
Fulvia Perillo