Le rughe nelle mani

L’anziana signora si staglia sulla pendice del suo poggio e si toglie lo sfizio di cantare al vento.
Cantava anche da giovane: melodie operaie e cantilene per ninne nanne intorno alla candela.
Non sapeva di spartiti, neanche di accordi, ma teneva un orecchio morbido e allenato ai suoni, alle voci, all’intonazione.
Quella del padrone, che arrivava al podere, impettito ad incalzare suo nonno non le piaceva: non le piaceva affatto che non smontasse da cavallo per ordinare.
Le piacevano le parole dolci della nonna e delle sorelle più grandi quando la dovevano lavare.
Più tardi, con la scuola, quella voce avrebbe imparato a svolgere bene il compito assegnatole.
Avrebbe continuato anche dopo, alle superiori, nella grande città d’arte apparecchiata sul fiume.
Ora, al giungere del tramonto, sostava volentieri ad osservare dentro a quell’incantamento.
E mentre il sole andava nascondendosi lungo la linea dell’orizzonte, oltre i campi ingialliti dal grano maturo, le salivano i ricordi che stordivano i sentimenti.
Forti quelli giovanili, impetuosi quelli appena dopo nati intorno a dei libri da salvare più dall’incuria dell’uomo che dagli argini del grande fiume.
Straripato ferocemente non diede scampo a nessuno, ma nella sua scia, oltre al fango, convogliò centinaia di ragazzi di mezza Europa e oltre. Dentro quel fango si adoperarono a tirar fuori la scrittura preziosa, stampata a torchio; le tele sacre pennellate a oro, i legni pregiati e gli arredi di cantine piene di storia e storie.
In quel dedalo di voci, diverse nelle origini, trovavano approdo i volumi delle canzoni e delle romanze in un latino innalzato ad un cielo laico.
Da quella storia ritornò con due amori: uno tra le mani e l’altro in grembo.
Il matrimonio sarebbe arrivato dopo, molto dopo.
Ma prima, giorni e giorni di campi, di lavoro, di orto e di fuochi da dividere e condividere nel crepitio che scaldava.
E quand’era il momento si scendeva in “piazza”, come amava dire, tornando a scandire parole d’ordine ma anche di tenera solidarietà per un mondo da trattare come un filare.
Sempre presente, sempre davanti, sempre con le parole imparate dai libri ordinati appena sopra la cappa.
Una sera l’uomo sdraiato accanto a lei guardava le sue mani:
– Elisa: dovresti proteggerle
– Sono come le tue, Adriano.
– Appunto: io so’ un omo, ma tu…
– Io che?
La guardò dritta negli occhi e lasciò perdere.
Lei incalzò: per convinzione e passione.
– Mi piacciono le mani laboriose, che strusciano la mia pelle, che si consumano nelle cose, come nell’amore. Per me non è diverso.
Lui tornò ad accarezzarla e di questo non si parlò più.
Ogni strascico, ogni crepuscolo del corpo, era festeggiato come si conveniva per l’invecchiamento di un buon vino o di un secolare albero.
Nella loro vecchiaia e nella loro compassione per le cose del mondo furono sempre insieme, ed insieme lottarono contro chi depredava, chi faceva affari e li chiamava accordi, chi deviava l’acqua e chi se ne appropriava indebitamente. Quando la gente del paese cercava soluzioni, l’Elisa e l’Adriano, erano sempre pronti ad una proposta, un’idea, che spesso nasceva dall’ intuizione che fare insieme era comunque meglio che fare da soli.
La vita consumata insieme lo testimoniava.
Il loro figlio, Rocco, ora agronomo in una bella cooperativa, lo raccontava.
Quando l’Adriano si spense, all’improvviso, luce di candela al soffio d’una corrente d’aria, sembrò a tutti che Elisa l’avrebbe seguito all’istante, tanto fu il dolore.
Restò in silenzio per tanto tempo.
E nel tempo rimasto coltivò fiori, trasformando quell’aia intorno alla casa in un giardino di sole.
Nel mezzo, centinaia di lettere scritte al figlio all’estero, prossimo a rientrare per dare fiato alle proprie idee, in casa propria, tra la sua gente e le sue valli.
Rocco era preciso, puntuale, lavoratore; era sicura che ne sarebbe uscito qualcosa di buono.
S’è fatto quasi buio. Scialle sulle spalle, se ne scende, prima che l’oscurità possa prendersi gioco dei suoi piedi stanchi, ed entrando in casa s’accuccia intorno al brontolio pentoloso della zuppa, accogliendo la sua parte di compagnia.
Qualcuno dice che lasciò delle pagine scritte; ma che non si sapesse dove fossero. Questo fino a quando, sotto la mattonella divelta per ristrutturare la vecchia cantina, il figliolo trovò qualcosa. Un quaderno, due, tre, riempiti con una scrittura minuziosa, ordinata.
Parole eleganti, brevi alla lettura.
In fondo aveva messo un titolo: Le rughe nelle mani.
Strette tra le sue, Rocco pensò che fosse perfetto.

(a Emilia)

Stefano Lucarelli

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Commenti

6 commenti a “Le rughe nelle mani”


  1. Luca Mattioli ha detto:

    Molto bello.

  2. Viscardo ha detto:

    Sei sempre un genio ora più intimo mai crepuscolare o lezioso
    Grande

  3. Papalini Luana ha detto:

    Avvolgente vera valorosa …nel contenuto e nella forma….
    Un grande abbraccio

  4. Anna ha detto:

    Un bel racconto, denso di cose buone, di saggezza,e terra, raccontato con poesia.

  5. Mara ha detto:

    Un racconto intimo e pieno di calore, molto bello e commovente.
    Mi è piaciuto tanto, complimenti Stefano Lucarelli!

  6. Antonella ha detto:

    Complimenti Stefano, le tue parole sanno suscitare sempre emozioni profonde

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