Da Il Tetto n.287 anno XLIX Gennaio-Febbraio 2012
Il volume di Gabriella Bartalucci nacque negli anni del completamento dei propri studi filosofici sotto la guida di Cesare Vasoli e parte da un’interessante tesi universitaria ampliata e rielaborata con cura. Infatti, le questioni affrontate nel volume sono state coltivate nel tempo attraverso gli anni dell’insegnamento e molte letture critiche. Questo retroterra di studi e di ricerche giustifica l’attuale pubblicazione di un volume su un grande, ma talora trascurato pensatore dell’età moderna, che diede un notevole contributo al dibattito sui temi antropologici e religiosi di un tempo di conflitti e di incomprensioni tra le fedi e le diverse opinioni.
L’esistenza di Edward Herbert di Cherbury, fratello del poeta George Herbert ed egli stesso influenzato dall’opera poetica di John Dee, risentì del clima politico di contrasti che caratterizzarono l’epoca della monarchia degli Stuart. Gli anni in cui si svolse la sua vita furono quelli dell’ultimo periodo dell’età elisabettiana, dei regni di Giacomo I e Carlo I Stuart e quelli della guerra civile inglese.
Ricordiamo, a questo proposito, che, solo nel secolo XVIII, fu pubblicata l’Autobiografia di Herbert, inizialmente scritta per i familiari. L’opera maggiore di Herbert è il De Veritate. Dopo una seconda edizione dell’opera, che gli assicurò una maggiore notorietà intellettuale, la terza edizione fu pubblicata con l’incompiuto “De causis errorum”, con il “De religione laici”, l’epistola ai sacerdoti e tre poesie latine (di diverse datazione e spesso rielaborate).
L’opera fu anche tradotta in francese ad opera di p. Marin Mersenne. A proposito di questa traduzione seicentesca, accenniamo che l’autrice del saggio sottolinea alcune modificazioni che resero le dottrine di Herbert più ortodosse, ma meno aderenti alle sue tesi.
Pertanto, è necessario ritornare alle fonti per comprendere più in profondità un filosofo che ha avuto un influsso significativo sull’antropologia, sull’etica e sulla filosofia della religione del suo tempo. Del resto, “Charles Blount (1654-1693), da sempre considerato intermediario tra Herbert e Toland, si ispirò direttamente a Herbert, sia nella sua Religio Laici (1683) che nelle altre opere, derivando da Herbert sia la teoria della religione naturale che la pars destruens dell’attacco alle credenze tradizionali. John Toland (1670-1722) a Antony Collins (1676-1729), posero Herbert tra i campioni del libero pensiero” (p.10).
Nel complesso delle opere di Herbert e anche nel De religione gentilium, la filosofia di Herbert si orienta verso l’affermazione dell’esistenza di principi chiamati verità cattoliche o universali. Convinto che ogni uomo nel suo fondo ha un rapporto intrinseco con la verità, Herbert sostenne che esistono anche verità etico-religiose che sono indipendenti dalla varietà delle credenze e da riti cui spesso gli esseri umani si sono legati.
In tale prospettiva, gli uomini sanno interiormente che Dio esiste e che egli è provvidente. Essi sono consapevoli di una differenza tra il bene e il male. Ognuno comprende che è necessaria una ricompensa di quel che si è fatto nel corso della vita.
Queste affermazioni di Herbert non possono essere comprese se non si prende coscienza del contesto in cui si situa il suo universalismo religioso in un’epoca di contrasti e di guerre di religione. Secondo l’autrice, non è possibile scindere l’interesse filosofico di Herbert da un complesso di suggestioni che ci rimanda a concezioni naturalistiche e vitalistiche. Senza poterci addentrare in ardue questioni filosofiche, dobbiamo dire che queste dottrine nascono in Herbert da un senso tutto intimo del divino che è presente dentro di noi. In questa prospettiva, si comprende l’apertura cosmica del discorso. La sua filosofia si mostra animata da un’attenta considerazione delle diverse cose e realtà dell’universo. Nello stesso tempo, la filosofia herbertiana è una condanna di ogni fanatismo, settarismo e odio tra gli uomini.
Come ricorda l’autrice, Herbert invita a guardare dentro di sé. Egli ci sospinge verso quella dimensione divina e cosmica che emerge quando non ci disperdiamo esteriormente. Il tema dell’unità del divino si collega alla tematica della ricerca, anche personale, di una dimesione integrale dell’uomo. Il rinnovamento dell’umanità non riguarda solo il futuro, ma comporta la riscoperta delle fonti originarie del nostro essere: lì il divino e l’amore si congiungono e danno senso effettivo alla vita interiore.
Herbert ricercava anche nelle antichissime religioni e credenze un originario contatto con il divino. In questa prospettiva, si devono anche comprendere le successive degenarazioni delle credenze religiose, spesso piegate a ragioni estrinseche e tutte umane. In questa stessa prospettiva, si deve intendere l’interesse di Herbert per il monoteismo, ma anche per il politeismo e per tutte le antiche credenze religiose (p.122). Rivedendo le cronologie tradizionali, Herbert sottolineava l’importanza dell’antichissima religione degli Egizi. Inoltre, egli si avventurava inun arduo confronto con le grandi simbologie religiose dell’umanità.
Considerando i quesiti perenni dell’uomo, Herbert sostenne che vi è un labirinto di errori in quegli atteggiamenti che spesso creano confusione e intolleranza. In effetti, già gli Antichi avvertirono sagacemente un’armonia tra i nostri piccoli universi umani e quello celeste che ci unisce tutti.
Se la prospettiva di Herbert va contestualizzata anche nella prospettiva della riflessione sulla religione degli ultimi due secoli, questo non appanna la sua vitalità e l’originalità di una ricerca antropologica autentica che il lettore potrà meglio apprezzare anche grazie al presente volume.
Francesco De Carolis