Finalmente anche questo Natale sta per finire. Sono le cinque del pomeriggio ma si respira ancora un’aria di languida pigrizia postprandiale. In autostrada circolano poche auto ma, se devo essere sincero, quasi quasi preferisco il traffico snervante dei giorni feriali a questa quiete malinconica della festa che finisce. A quest’ora pochi hanno voglia di andare a giro. A parte quelli che pisolano sulla poltrona di un cinema, la maggior parte di quelli che conosco preferisce starsene rintanata in casa, assopita nell’arduo lavoro digestivo, con sottofondo di chiacchiere televisive e parentali.
L’autostrada di buio è sempre uguale: un nastro monotono che scorre in mezzo alla pianura costellata di luci. Certo che le insegne luminose davanti alle fabbriche chiuse hanno la stessa aria del circo dopo lo spettacolo! Davvero deprimente. Lo so che per Natale non si lavora ma vedere il fumo delle ciminiere che sale nell’oscurità è un segno di vita che fa compagnia a chi guida da solo. Per fortuna, c’è la radio …Giro il pulsante e subito una voce femminile, vellutata e suadente, attira la mia attenzione, distogliendomi da pensieri non proprio esaltanti: “Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios temptaris numeros …”
Ehi, questa parla in latino! Non sarà mica Radio Maria, eh? Ah, no, non è il rosario ma una poesia. E questa è una di quelle trasmissioni culturali dirette a quell’uno per cento di ascoltatori che non sopporta più le solite chiacchiere oziose e le canzonette demenziali. Va bene, meglio sentir parlare in latino che sorbirsi le solite melodie natalizie associate alla pubblicità di panettoni e di I phone. Eppure questi versi li ho già sentiti …
La conduttrice commenta ispirata rivolgendosi a un ignoto interlocutore: “Professore, non le sembra che i versi di Orazio risuonino più attuali che mai in un tempo come il nostro, privo di salde certezze e orientato al più rassegnato relativismo?”
“È evidente che si tratta di un messaggio profondamente attuale – replica quasi risentito il misterioso esperto – Basta riflettere sul senso dei versi: Tu non chiedere, non è lecito saperlo, quale fine a me e a te abbiano dato gli dei, o Leuconoe, né tentare i calcoli babilonesi …”
Ah, ecco, si tratta di quella poesia famosa che invita ad afferrare l’attimo e a godersi la vita perché è breve. Mi ricordo che al liceo il professore di latino ci faceva due coglioni così con questa storia del “carpe diem”. Comunque la poesia aveva un certo fascino e, con il passare degli anni devo ammettere che aveva anche un senso. Tanto che qualcuno ha avuto la brillante idea di stampare i versi di Orazio sulle t- shirt e di farci un mucchio di quattrini.
Accidenti agli automobilisti che scambiano l’autostrada per un sentiero di montagna e vanno a due all’ora. E per viaggiare come una lumaca ha comprato anche il fuoristrada. Ora lo abbaglio, così si dà una mossa!
Eppure, quand’ero bambino il Natale era una vera libidine. Non tanto per i regali che allora erano assai modesti, quanto per l’atmosfera che lo precedeva: la letterina a Babbo Natale con tutti i lustrini che rimanevano appiccicati alle dita, gli zampognari che suonavano per le vie del centro e che, a sentire la zia Rina, portavano pure sfiga e il momento topico della festa ossia la recita della scuola.
Già, la recita … A distanza di secoli, se un giorno dovessi finire sul lettino di uno psicanalista, credo che non farei fatica a confessare che ha rappresentato il mio primo e più grave trauma infantile, destinato a ferire con inaudita crudeltà la mia psiche già profondamente provata. Il fatto è che, ogni anno, la maestra mi lasciava sperare fino all’ultimo che mi avrebbe assegnato un ruolo da protagonista nella scena della natività. Invece, finivo sempre per interpretare il solito pastorello nascosto in seconda fila dietro una palma o, addirittura, la pecora in fondo a sinistra, alla fine del presepe. Arrivati in quinta, quando sembrava che ormai le mie velleità artistiche fossero destinate a rimanere inespresse, la maestra ebbe un moto di inspiegabile pietà e, consegnandomi una lunga palandrana azzurra e un paio di alettoni di penne sintetiche, mi annunciò che avrei finalmente interpretato il prestigioso ruolo dell’angelo. Non stavo nella pelle dall’emozione. Purtroppo, durante le prove, il gancio che mi teneva appeso all’ingresso della grotta si ruppe e caddi malamente, slogandomi una caviglia. Come vi sareste sentiti voi al mio posto?
E poi, arrivati alla viglia, mi aspettava la prova più dura di tutte, quella che, una volta superata, mi dava il nullaosta per partecipare degnamente ai festeggiamenti: la messa di Natale. Era inutile fingersi raffreddato o appisolarsi sul divano davanti al film di Walt Disney perché la zia Rina mi trascinava fino alla chiesa delle Monachine e mi faceva sedere fra lei e la sua amica Adele, pizzicandomi il braccio con inaudita violenza ogni volta che sbadigliavo in maniera plateale o mi assopivo misticamente avvolto in una nuvola d’incenso.
Povera zia Rina, quanto ci teneva che cantassi l’ “Adeste fideles”, anche se sono sempre stato stonato come una campana!
Oggi, al ristorante, mentre le aggiustavo il tovagliolo intorno alla camicetta – quella rosa antico delle feste comandate con tanto di perline ai polsi – le ho ricordato con una certa tenerezza le famose messe di mezzanotte e lei, per tutta risposta, ha replicato un tantino acida: “Ma se non sei mai stato capace di imparare a memoria neanche il Salve Regina!”
Povera zia Rina, ha sempre avuto un gran brutto carattere ma, se non ci fosse stata lei, la mia sorte sarebbe stata molto simile a quella degli orfanelli dei romanzi di Dickens. Sono sicuro che sarei stato uno splendido David Copperfield o un perfetto Oliver Twist. Solo che invece di finire in un ospizio londinese, mi avrebbero spedito in qualche orfanotrofio fiorentino. E invece la zia Rina mi ha accolto nella sua bella casa a due passi da piazza S. Marco e mi ha fatto studiare dagli Scolopi. Oddio, il risultato non è stato del tutto all’altezza delle aspettative ma uno straccio di diploma me lo sono preso e posso dire che, dal punto di vista finanziario, non me la passo poi tanto male. Ci credo, amministrare i beni della zia Rina è impegnativo ma ben remunerato. Soprattutto da quando la zia non è più così attenta nel controllare i conti …
Eccoci al casello. È strano che per prendere il biglietto non ci sia da fare la fila. Questo viaggio di ritorno, monotono e solitario, mi ripaga dallo stress del pranzo natalizio. Ad essere sinceri, quest’anno, fino all’antipasto è andato tutto nel migliore dei modi. La zia Rina non ha infamato il cameriere per l’attesa, ha trovato i crostini quasi accettabili e non mi ha rimproverato quando ho lasciato nel piatto il filo di grasso del prosciutto. Ma quando sono arrivati i tortellini, non ha potuto fare a meno di vomitarmi addosso la sua inesauribile vis polemica e ha incominciato ad elencarmi tutte le mie imperdonabili incapacità. A cominciare da quelle scolastiche fino ad arrivare, in un crescendo inarrestabile, a quelle sentimentali e professionali. Devo dire che sono stato eroico a non alzarmi da tavola, dopo averla affogata nel brodo del cappone.
Lasciamo perdere, tanto ogni anno è la stessa storia … E’ meglio distogliere la mente dai ricordi sgradevoli e abbandonarsi all’ascolto della voce femminile acculturata che incalza il professore, estorcendogli dotti commenti: “Si può dunque affermare che la poesia di Orazio è la poesia del presente?”
“Certamente – le risponde pazientemente l’esperto di letteratura latina – Si può affermare che, per il nostro poeta, è la sola dimensione in cui è concesso di vivere e la sola in cui confidare.”
E senza attendere la replica declama tutto ispirato: “Ut melius, quidquid erit, pati. Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare Tyrrenum … Che, tradotto alla lettera, significa: Come è meglio accettare tutto ciò che sarà! Sia che molti inverni ti abbia assegnato Giove o ultimo questo che ora infrange contro le opposte rocce il mare Tirreno …”
Approfitto della pausa lirica per sorpassare, insultandolo pesantemente, un deficiente in Panda che occupa, viaggiando a zig zag, una buona metà della corsia di sorpasso.
Eh sì, parlava bene, il vecchio Orazio: non ti interrogare sul futuro, assapora il presente, tanto non sai quello che può capitarti … Non ci vuol niente a predicare equilibrio e moderazione quando non si ha una zia Rina da sopportare. Avrei voluto vedere lui al mio posto, seduto davanti al piatto del bollito e dei sottaceti con l’accompagnamento di una caterva di invettive di una malevolenza inimmaginabile! Nemmeno quando è arrivato il panforte, accompagnato dai ricciarelli e dal vin santo, è stata capace di osservare un minuto di rispettoso silenzio. E, alla fine, ha trovato da ridire anche sul panettone che, secondo lei, non era artigianale e si capiva che era dell’anno scorso per via delle mandorle rinsecchite.
Ma perché continuo ad avvelenarmi con questi pensieri funesti ? In fondo è Natale, no? E a Natale anche uno scettico come me cerca di riesumare qualche sentimento delicato e di lasciarsi pervadere persino da una vena di malinconia al ricordo di entusiasmi infantili ormai perduti: le corse sulla neve per i vicoli cittadini, il pupazzo con la carota al posto del naso nel giardino della scuola e il mazzo di agrifoglio che rubavo al banchino del fioraio di S.Lorenzo per regalarlo alla zia. A parte il fatto che una volta lo usò per fustigarmi perché mi ero bagnato i pantaloni facendo a pallate in via S.Gallo, per il resto l’agrifoglio era una pianta che lei ha sempre apprezzato, tanto che, passato Natale, la portava sulla tomba della buonanima dello zio, deceduto anzi tempo. A tale proposito mio padre insinuava che fosse morto dalla disperazione per aver sposato una donna con un carattere così infame ma qualche anno dopo anche lui gli dette ragione e preferì andarsene al Creatore per non subire più le vessazioni di una simile sorella. Mia madre, dal canto suo, aveva pensato bene di volatilizzarsi in compagnia di un facoltoso industriale pratese quando ero ancora in fasce. Questa fuga suppongo l’abbia salvata da sicure calamità e, quindi, la perdono e la giustifico senza alcun risentimento.
Ma sentiamo un po’ che cosa ci dice ancora la misteriosa voce del letterato radiofonico: “… sapias , vina liques, et spatio brevi spem longam reseces. Come non cogliere questo lucido insegnamento del poeta? Chi di noi non ha pensato almeno una volta che l’esistenza è un soffio e che è un peccato imperdonabile non viverla fino in fondo? Per questo Orazio si rivolge a Leuconoe, invitandola a godere del presente senza sperare alcunché dal futuro che è sempre ignoto e imprevedibile: Sii saggia, filtra i vini e poiché il vivere è breve tronca ogni lunga speranza.”
A questo punto anche la conduttrice si sente in dovere di dire la sua: “Un insegnamento quanto mai destinato anche a noi posteri che troppo spesso perdiamo il senso della vita e ci lasciamo travolgere dall’ansia e dall’insoddisfazione.”
Questa se la poteva risparmiare ma si vede che si è preparata la lezione e non vuole sfigurare con l’esperto.
Ma guarda tu se uno deve passare il pomeriggio di Natale in autostrada, solo come un cane, a lambiccarsi il cervello con tutte queste seghe mentali …
Tanti anni fa, a quest’ora, l’atmosfera era ben diversa : seduto sul tappeto del salotto, passavo il pomeriggio cantando “Tu scendi dalle stelle” alla zia con l’inconfessabile augurio che una volta tanto, cadesse nella discesa e smettesse finalmente di rompermi i coglioni. Naturalmente l’auspicio riguardava la zia Rina e non Gesù Bambino. Ricordo che mi piaceva un mondo baloccarmi davanti all’albero di Natale, giocando con l’annuale scatola di Lego ricevuta in regalo e seviziando le orribili palle fosforescenti che la zia aveva comprato in quantità industriali alla Standa. Sicuramente a sconto.
Eh, sì, sono finiti i bei tempi in cui l’arrivo della festa mi faceva sentire quasi buono e chiedevo a Babbo Natale di portarmi un arco con le frecce vere al posto dei Lego, che sarebbero piaciuti tanto ai bambini poveri.
A proposito di regali, quest’anno la zia non può certo lamentarsi perché le ho comprato un libro che le piacerà moltissimo. In realtà volevo portarle la solita stella di Natale, che lei avrebbe provveduto a regalare alla donna delle pulizie, come fa ormai da diversi anni. Ma quando, vagando fra gli scaffali dell’Ipercoop, ho visto quella copertina così accattivante, non ho saputo resistere alla tentazione: la caricatura di Edgard Allan Poe sembrava ammiccarmi con aria complice e il titolo Bocconcini al cianuro mi è sembrato un segnale della Provvidenza, finalmente decisa a darmi una mano. Ma è stato quando ho letto il nome dell’ignota curatrice dell’antologia, tale Virginia Logis Pazzi, che mi si è accesa una misteriosa lampadina nel cervello. Senza alcuna esitazione ho afferrato il libro, mi sono precipitato alla cassa e ho chiesto alla commessa di farmi una confezione regalo, con tanto di fiocco rosso e rametto di vischio. Poco dopo sono entrato nella migliore pasticceria di Montecatini e ho acquistato un magnifico panettone artigianale di quelli ricoperti di glassa e di mandorle croccanti . Eh sì, proprio le mandorle … con quel loro sapore particolare che, nei gialli di Agatha Christie, che piacciono tanto alla zia Rina, si confonde con un altro sapore letale : quello del cianuro. Così ho aggiunto furtivamente un altro ingrediente al panettone e l’ho incartato con cura certosina. Diciamo un ultimo tocco d’artista.
Devo ammettere che, nel riaccompagnarla a casa dopo il pranzo natalizio, quando le ho dato i due regali, la zia è rimasta piacevolmente sorpresa e mi è sembrato anche di notare un leggero sorriso di compiacimento, che mi ha fatto davvero piacere. Direi che ha chiuso in bellezza.
A quest’ora avrà già divorato un paio di fette di panettone e avrà già letto la prefazione di Bocconcini al cianuro. Peccato che non abbia il tempo per leggere anche i racconti di Sozzi, Parigi & Vignali perché devono essere davvero intriganti …
Ecco laggiù le luci della città che spuntano dietro i cipressi intirizziti di un vivaio. Devo ammettere che questo viaggio di ritorno mi ha riconciliato con me stesso. Ma sentiamo il finale della trasmissione …
“Dum loquimur, fugerit invida aetas: – cinguetta sentenziosa la voce femminile – carpe diem quam minimum credula postero.”
Bravo Orazio, parole sante!
“Mentre parliamo – conclude la voce del mio pedante compagno di viaggio – sarà fuggito l’invido tempo: cogli l’attimo, fiduciosa il meno che puoi nel domani. E con questo invito, saluto i nostri ascoltatori augurando loro un felice Natale e un altrettanto felice anno nuovo.”
Laura Vignali