Intervista a Gualtiero Della Monaca su “La presa di Porto Ercole”

TITOLO:
La presa di  Porto Ercole

AUTORE:
Gualtiero Della Monaca

FORMATO: brossura
PAGINE: 304
EDITORE: Effigi
COLLANA: Edizioni Costa d’Argento
ISBN: 978 88 6433 062 4
ANNO DI PUBBLICAZIONE: 2010
PRODUZIONE: C&P Adver di Mario Papalini
PREZZO: euro 15.00

Quella che segue è la trascrizione di un’intervista a Gualtiero Della Monaca, autore del bellissimo saggio La presa di Porto Ercole. E’ stata fatta il 2 marzo 2011 ed è un ricco approfondimento sul libro e una attenta analisi storiografica del periodo in questione. Buona lettura!

Questo libro ci dice che Porto Ercole inizia la sua storia di centro abitato di una certa consistenza a partire dal XV secolo come possedimento della Repubblica Senese. Ma il primo capitolo si apre con la citazione di una cronica del 1338 ad opera di Andrea Dei, quando Porto Ercole era disabitato e privo di fortificazioni, però già attivo scalo marittimo e sede di scambi e ricchi commerci fra le più abbienti e influenti famiglie senesi e i più intraprendenti mercanti del mediterraneo.

Quali sono state le fonti per “La Presa di Porto Ercole”? Quali sono gli archivi principali per la storia di questo territorio e dove si trovano? Internet rappresenta già una risorsa in questo senso oppure è semplicemente uno strumento di controllo eventuale per nomi e date?

Alle spalle di questo libro c’è una ricerca notevole, sia di archivio che bibliografica. Per due motivi, tanti anni fa, mi sono messo a scriverlo: il primo è stato per la curiosità di vedere com’era il sistema difensivo pre-spagnolo a Porto Ercole. C’era molta vaghezza al riguardo, si diceva che i senesi avessero già costruito un po’ tutto.

In realtà avevano fatto ben poco se non negli ultimi giorni di vita della Repubblica Senese, quando la città era già caduta ma la res publica continuava a esistere nella “Repubblica Senese ritirata a Montalcino” dove si conservava ancora un po’ di resistenza. Piero Strozzi

Nel corso della capitolazione senese anche il capitano Piero Strozzi si rifugia a Montalcino e capisce che l’unico punto di contatto con l’esterno (quindi l’unica speranza) dal quale sarebbero potuti giungere aiuti, rinforzi e approvvigionamenti era Porto Ercole che ancora continuava ad essere in mano ai senesi (Orbetello era già caduta in mano spagnola). Decide quindi di consolidare il presidio portercolese raccogliendo lì le truppe franco/senesi e costruendo qualche fortificazione. Di questi fortini ho cercato di riprodurre storia, ubicazione e consistenza parlandone diffusamente nel libro. Furono queste le cause per le quali gli imperiali di Carlo V dopo aver abbattuto Siena concentrarono il loro sforzo bellico in queste contrade.

Piero Strozzi, messo a capo del presidio di Porto Ercole, insieme ai suoi tirò su in due/tre anni una serie di sette fortificazioni, dal 1552 al 1555, ma non si trattava di veri e propri forti in muratura e pietra come siamo abituati a considerarli adesso; erano piuttosto fortificazioni passeggere. Ad esempio le ultime erano state costruite in poche settimane, in maniera molto approssimativa, tirando su un po’ di terra e rinforzando con il legname. Invece le altre, meno recenti, edificate nel 1552 dal fratello Leone Strozzi erano in pietra.

Fra parentesi Leone fino a pochi anni prima aveva militato a fianco del pirata Barbarossa, ma a quell’epoca non ci voleva molto per cambiare bandiera più di una volta e Leone Strozzi nel corso della sua vita si era ritrovato come “amico” addirittura Cosimo I de’Medici (il suo nemico per eccellenza) a causa di un complesso gioco di alleanze che aveva come registi principali alternativamente la Francia o la Spagna: gli italiani si trovavano spesso a dover giocare il ruolo degli obbedienti vassalli…

Cosimo I De Medici

Il secondo motivo che mi ha spinto a scrivere questo libro si deve al fatto che ogni volta che mi capitava di incontrare la citazione di queste vicende storiche (ad esempio nei libri degli storici Cantagalli, D’Addario, Douglas, Pellegrini) riguardo alla fine della Repubblica Senese, alla presa di Porto Ercole veniva dedicata solamente una pagina. Al baluardo finale della Repubblica Senese, all’assedio che ha condotto alla capitolazione ultima di un pezzo importante della storia italiana si dava insomma pochissimo spazio. Ho ritenuto opportuno fornire la dovuta integrazione con la pubblicazione di questo volume, interamente dedicato alla presa di Porto Ercole e ai fatti storici che hanno condotto fino a quel punto.

Del resto le personalità politiche e militari che hanno agito e gravitato intorno a questa capitolazione sono di primissimo piano, fra capitani di ventura e leggendari ammiragli: Chiappino Vitelli, Piero Strozzi, Andrea Doria, Gian Giacomo Medici conte di Marignano, Draghût Raìs, Blaise de Monluc, Cosimo I de’Medici

Alla fine della battaglia sorsero accese discussioni nel campo dei vincitori sul modo migliore di mettere a frutto questa zona così strategica.

Per dire delle fonti: impostando la ricerca sulle edificazioni pre-spagnole ho avuto la necessità di gettare lo sguardo ancora più indietro agli anni che vanno dalla fine del XIV agli inizi del XV secolo, specie quest’ultimo. Le prime costruzioni risalgono agli Orsini: la prima torre a Porto Ercole è stata edificata perchè il conte Orsini aveva la sua nave personale nel “porto di Ercole”, quindi un minimo di difesa doveva esserci. Ma ancora, in quegli anni, grossi pericoli dal mare non ne giungevano. Gli abitanti erano pochissimi e ridotti alla fame più nera e spaventosa (cosa che del resto caratterizzava gli stessi anni della presa di Porto Ercole – 1555 – in tutto il circondario).

Dunque Porto Ercole nasce e si sviluppa nei suoi primi anni di vita come porto commerciale che pian piano inizia a far gola, in quanto sbocco sul mare, sia a Siena che a Firenze che, ancor prima, ad Orvieto: tutti ambivano ad uno sbocco sul mare.

Ma, a partire dai primi del ‘500, i pericoli dal mare cominciarono a farsi preoccupanti sul serio, quindi da porto esclusivamente commerciale Porto Ercole diventa anche porto militare. Si rende necessaria la presenza di galee, la costruzione di un sistema difensivo più adatto, l’edificazione di una casamatta in fondo al porto (dove adesso c’è Santa Barbara), un puntone galleggiante che serviva da protezione in entrata etc…

Per ciò che concerne gli archivi: molto dipende dal periodo di cui si è interessati. Per il secolo XIV moltissimo materiale riguardante questa zona si trova negli archivi di Orvieto, per il secolo XV bisogna cercare a Siena, per ciò che riguarda il periodo spagnolo (a partire dal 1555) gli archivi più forniti sono a Firenze, Napoli, Parigi, Madrid, Simancas.

Dall’estero è possibile farsi spedire, a pagamento, la riproduzione di un qualsiasi documento antico di cui si conosce l’esistenza: in questo Internet è stata fondamentale. Un ponte notevole. Per ciò che riguarda l’assedio di Orbetello (al quale sto lavorando) grazie a Internet ho trovato moltissimo materiale; ancora non è possibile consultare direttamente il documento d’archivio, ma risalire a ubicazione e disponibilità e farsene eventualmente spedire una copia e questo è, in più di qualche modo, rivoluzionario.

Per questo libro, comunque, ho consultato l’archivio comunale di Siena, di Firenze, di Orbetello, di Piombino (sede del fondo di Romualdo Cardarelli, un grande ricercatore).

Leggendo ci si rende conto di quanto la zona dell’Argentario e dintorni stesse diventando sempre più viva e vivace e quanto la sua posizione geografica ne facesse un punto strategico per il controllo del mare Tirreno. Ben lo sapevano per esempio le schiere corsare del Turco, cioè del sultano ottomano (in espansione), delle quali la più famosa è senz’altro quella del pirata Barbarossa, un marinaio greco di Smirne convertito all’Islam, che molte volte ha devastato le coste della Maremma. Cosa venivano a fare Barbarossa o Draghût Raìs o Salah Raìs al Monte Argentario? Quali erano le tecniche adottate per cercare di avvistare e difendersi da quello che rappresentava un vero e proprio incubo? Che differenza c’è fra un pirata e un corsaro? C’erano anche corsari cristiani dai quali guardarsi?

Per ciò che riguarda l’attività corsara nel mediterraneo la battaglia di Lepanto ha significato senza dubbio un punto di cesura fondamentale. Quando ebbe luogo (1571) Barbarossa era già morto da un pezzo (1546) e lui era stato un leader di tutto rispetto. Stesso rispetto lo merita Draghût Raìs, suo successore, anche se con quest’ultimo siamo già in una fase di decadenza.

Il periodo aureo della presenza turca nel mediterraneo deve dunque individuarsi negli anni che hanno visto il Barbarossa protagonista, gli anni nei quali i corsari barbareschi erano alleati con i francesi, godendo di notevole sicurezza quando addirittura le navi francesi accompagnavano quelle ottomane nel corso delle loro scorrerie. La base di partenza era diventata Tolone, da lì si salpava per andare a saccheggiare le coste tirreniche fino in Sicilia e fare ritorno a casa, a Costantinopoli o ad AlgeriBarbarossa

Successivamente alla battaglia di Lepanto, invece, si passa alla pirateria spicciola, ai predoni, a piccole flotte composte da due, tre o quattro navi che si ancoravano, per dire, a Giannutri, (un isola completamente disabitata) pronti ad assaltare la prima nave mercantile che fosse capitata a tiro.

Si stava insomma iniziando ad assottigliare il confine fra corsaro e pirata dove, modulando l’esempio sulla compagine musulmana, il corsaro era una sorta di dipendente del sultano: era abilitato ad esercitare la sua attività di predone del mare da una “patente di corsa” ufficiale che obbligava il corsaro a pagare al sultano una quota di tutto ciò che era riuscito a racimolare e in cambio poteva contare  sulla protezione della flotta ottomana e sulla totale autonomia d’azione. Il pirata al contrario era una sorta di cane sciolto, solo contro tutti: tutto ciò che riusciva a raccogliere gli apparteneva ma non aveva amici. Va detto che la figura del pirata non era valutata dal sultano in maniera completamente negativa perché di sicuro aveva in odio maggiore la compagine cristiana più che la turca, pur non dovendo niente a nessuno e lavorando per sé.

Una delle ragioni principali delle scorrerie barbaresche era la necessità di fare schiavi da utilizzare per i propri scopi. Quando si impadronivano di un individuo, se si trattava, mettiamo il caso, di un medico o di un architetto poteva continuare, da schiavo, a esercitare la sua arte in oriente, dal momento che in quei luoghi se ne soffriva grandemente la carenza; se si trattava di un pescatore giovane finiva inderogabilmente al remo; se si trattava di una donna si preferiva aspettare qualche giorno l’eventuale giungere di parenti o di altre autorità, anche religiose, che ne reclamassero la liberazione dietro pagamento di un riscatto.

Gli occidentali, per parte loro, hanno avuto grandi uomini sul mare che hanno saputo contrastare validamente questi pirati.

La battaglia di Lepanto è stata molto importante anche semplicemente a livello di morale per l’Europa che comunque da Lepanto in poi ha potuto trarre beneficio anche dalla mancanza di grandi strateghi militari marittimi ottomani come potevano esser stati Barbarossa o Draghût Raìs (morto nel 1565). I successivi, sia Salah Raìs che Uluç Alì, per citarne due dei più famosi, possono essere definiti predoni più che personalità autorevoli non avendo saputo rimpiazzare in maniera degna chi li aveva preceduti. Noi cristiani, al contrario, oltre ad Andrea Doria abbiamo annoverato grandi capitani di mare: Vettori, Rossermini, Orsini, Giustiniani, Barbolani, Giannettino Doria e molti altri, chi al comando della flotta granducale, chi al comando della flotta genovese, chi di quella di Malta o del papa.

In particolare Talamone può annoverare un eroe locale che riuscì a infliggere pesanti danni al prestigio ma anche ai beni e agli affetti di Khayr ed-Din, cioè proprio il pirata Barbarossa, e quindi per estensione all’impero ottomano tutto, tanto da farne un paladino di tutta la Cristianità (anche se va detto che con lui i Cristiani non si dimostrarono troppo riconoscenti). Si chiamava Bartolomeo Peretti e fino a trentatre anni era stato un ottimo soldato fedele prima a Giovanni delle Bande Nere e poi a Siena. Quindi decise di farsi comandante di una galera, poi di una piccolissima flotta e si dimostrò talmente forte e coraggioso da spingere le sue scorrerie fino alle porte del Bosforo e a devastare e incendiare le proprietà personali dello stesso Barbarossa nell’isola di Lesbo. Cosa ci rimane di Bartolomeo Peretti oggi e come si concluse la sua sfida personale al più temuto pirata del suo tempo? Esistono pubblicazioni al riguardo? In che senso Peretti poteva dirsi talamonese?

I primi a scrivere di Bartolomeo Peretti siamo stati Domenico Roselli, Giuseppe Tosi ed io nel 1996, in appendice al nostro fortunato volume sulle “Fortezze e Torri costiere dell’Argentario, Giglio e Giannutri”, poi da qui sono partiti tutti gli altri, in particolare Angelo Biondi. A Talamone non c’è niente, neanche una targa. Dei suoi resti è stato fatto scempio dal Barbarossa medesimo che, offeso nel profondo dal gesto di sfida di Peretti, era andato a cercarlo fin nella sua casa di Talamone dove fu informato che era morto quattro mesi prima di mal di pietra (calcolosi). Così decise di andarsi a sfogare sulla sua tomba. Bartolomeo Peretti era probabilmente di origini corse e nato a Talamone, il più antico porto della Maremma, già attivo nel 1300 in quanto dominio di della Repubblica Senese.

Nel libro c’è un paragrafo che si intitola “I progetti per una città ideale all’Argentario” nel quale vengono riportate le parole di alcuni grandi architetti del XVI secolo come Claudio Tolomei (detto “il sottile” per l’acutezza del suo ingegno), o Pietro Cataneo, architetto senese che disegnò tutte le fortificazioni militari della zona, oppure Francesco de Marchi, altro architetto militare. Tutti a tessere lodi alla località ritenuta degna e anzi ideale per la fondazione di una città meravigliosa cui non sarebbero mancate risorse e prosperità. In particolare de Marchi:

“[…] Et il mare che bagna esso monte, produce varj pesci e buonissimi. il medesimo fa il stagno di Orbatello… né manca il sale, perciò che lì vicino se ne fa gran quantità, in un luogo chiamato Albegna. Evvi olio e mele e cera, meloni e zucche, e altri herbaggi in abbondanza; vi è il terreno e l’aria tanto appropriata, che produrria quasi al pari dell’Arabia Felice. Adunque se questo monte è così bello e fertile, e così forte; non saria fuor di proposito di farvi una grande abitazione di popoli, cioè edificarvi una Città.”

Cosa è andato storto? Il fatto che alle parole non siano seguiti i fatti è da imputarsi alla mancanza di denaro o di prospettiva o ad una questione di opportunità politica? Davvero l’Argentario era stato preso in considerazione per l’edificazione di una grande città con un arsenale degno di Venezia? Quali sono le sue opinioni al riguardo? E cosa vuol dire l’architetto Pietro Cataneo quando afferma che il suo collega Claudio Tolomei ha saputo scoprire uno strano legame fra Orbetello e l’oriente?

L’Argentario è stato oggetto di attenzioni di questo tipo non solo nel XVI secolo ma anche successivamente. Ho pubblicato diversi articoli sullo stesso argomento sul mensile Antiche Dogane. Ci sono i tre studiosi del 1540 di cui parlo nel libro, Tolomei, Cataneo e De Marchi.

Poi nel 1588, cioè nel periodo spagnolo addirittura si dice che ci fosse qualcuno che aveva in animo di erigere una città dedicata a Filippo II, Filippiade. Ci fu, negli stessi anni, intorno al 1588, anche un genovese, un certo Grimaldi che voleva costruire una grande città sul Monte Argentario. Si arriva infine al XIX secolo quando uno studioso propone alla sorella di Napoleone, che poi era la granduchessa di Toscana Elisa Bonaparte Baciocchi, di costruire una città ideale sull’Argentario.

Questa, insomma, è un idea che ha sempre solleticato la fantasia di architetti e studiosi di vario genere capitati da queste parti perché in teoria qui non manca nulla: dalla posizione, al mare, alle fonti, al terreno, alla laguna, al pesce… Non si è mai andati fino in fondo però, certo per l’impegno economico non indifferente, ma a scoraggiare c’era anche la malaria che non esisteva a Porto Santo Stefano o a Orbetello, ma esisteva nei dintorni, per esempio a Talamone o nell’immediato entroterra orbetellano e perfino a Porto Ercole. Dunque si correva il rischio di non poter avere via d’uscita se non via mare. Infine, per secoli si è dato il pericolo delle scorrerie barbaresche dei pirati il che stava a significare dover costruire come prima cosa delle costosissime roccaforti difensive. 

Cataneo, comunque, critica l’opinione del Tolomei. La sede della città ideale secondo lui non avrebbe dovuto essere l’Argentario, ma Orbetello che paragona a Cartagine, a Costantinopoli e, soprattutto, a Venezia che per essere protetta dalla laguna, riteneva la città più forte del mondo.

Per quel che riguarda l’accenno agli strani legami con l’oriente: si tratta proprio di Pietro Cataneo che riporta le impressioni scaturite da una conversazione con il suo illustre collega studioso: «Dello stesso mio parere è Messer Claudio dei Tolomei, cittadino nostro, il quale ha saputo scoprire uno strano legame tra Orbetello e l’oriente». Conversazione avvenuta probabilmente nel Salone dei Magnifici della Balia di Siena alla presenza di Don Diego Hurtado de Mendoza che era l’ambasciatore imperiale. Diego

Tolomei, infatti, a proposito di questo fantomatico strano legame non aveva scritto nulla sul suo trattato; dunque, probabilmente, deve aver confidato a voce qualcosa a Cataneo oppure quest’ultimo riporta le parole udite durante una conversazione fra il Tolomei e l’ambasciatore. Niente di più.

Si tratta di un episodio riportato anche da Mario Pincherle nel suo discusso “Il porto invisibile di Orbetello” [qui] ; un virgolettato di cui però non viene citata la fonte. Detto questo sono tuttora ignoti gli strani legami ai quali forse il Tolomei aveva fatto cenno. La parola che lascia perplessi è proprio quello “strani”, perché legami con l’oriente Orbetello li ha avuti nel corso della sua storia, per fare solo qualche esempio con i bizantini, che usarono Orbetello come avamposto contro i longobardi o con i saraceni che occuparono per qualche tempo il litorale e le isole della bassa Maremma costiera. Insomma di “strani legami”, per quel che se ne sa ad oggi, neanche l’ombra.

La prima approssimativa rappresentazione cartografica del Monte Argentario si deve all’architetto senese Baldassarre Peruzzi nel 1532 (riportata nel libro). Risale agli anni fra il 1522 e il 1526 il “Libro di Marina” (Kitab-i Bahryye) dell’ammiraglio turco Piri Reis nel quale si trova l’illustrazione geografica della costa maremmana, molto stilizzata ma riportata in dettaglio e accompagnata da una minuta descrizione toponomastica. E’ del 1536 la Chorografia Tusciae redatta da Girolamo Bellarmati, la prima carta geografica della Toscana, dove l’Argentario appare molto ben delineato. Insomma il segno di un aumentato interesse strategico per queste zone ma anche la prova che la battaglia per la supremazia si giocava anche sul piano della applicazione delle nuove tecnologie? E’ stato grazie a queste che alla fine l’occidente l’ha spuntata?

A mio avviso non si è data una carenza di tipo tecnologico. Tecnicamente i maghrebini, gli ottomani, erano avanti sia come armi che come navigazione. Probabilmente quello che a loro è mancato è stata la presenza di grandi condottieri che nella storia dell’impero ottomano si contano sulle dita di una mano.

In realtà molte innovazioni tecniche l’Europa le ha importate dall’oriente: la polvere da sparo, certi tipi di imbarcazione, le tecniche di zavorramento… L’utilizzo di pesi nel doppio fondo delle navi per impedirne il ribaltamento, ad esempio. Molti accorgimenti sono stati copiati dagli ottomani anche nell’uso delle armi e delle artiglierie.

Per questo più che di inferiorità tecnologica, secondo la mia opinione, sarebbe più opportuno parlare di carenza di uomini, dunque di fallimento politico in ultima analisi. L’impero ottomano era comandato da un’unica personalità, il sultano, che disponeva a suo piacimento di tutti i suoi sudditi. L’occidente, al contrario, poteva contare su una molteplicità di ingegni, di figure carismatiche e politicamente molto rilevanti che alla lunga si sono rivelate determinanti.

Nell’intrigo delle alleanze, dei voltafaccia e delle improvvise congiure che danno un po’ il segno a tutto il Rinascimento si arriva al luglio del 1552 quando Orbetello si trova ad appartenere alla compagine spagnola imperiale e Porto Ercole a quella franco/senese. Cosa era successo? La divisione riguardava solamente i militari o anche la popolazione?

Nel libro ho cercato di mettere bene a fuoco questa situazione tentando di ricostruire cosa fosse successo nel capitolo “Orbetello e Porto Ercole tra il 1548 e il 1554”. La relazione tra Orbetello e gli spagnoli, anche nel prosieguo storico, è stata sempre problematica. Nonostante tutti i matrimoni tra le giovani orbetellane e gli alfieri o i capitani o i soldati spagnoli, sia nel XVI che nel XVII ma anche XVIII secolo; gli spagnoli non hanno mai mancato di abusare della prepotenza del dominatore e questo ha sempre impedito l’autentica integrazione nel tessuto sociale locale. Lanzichenecco

Tornando alle vicende della presa di Porto Ercole: cacciati da Siena gli spagnoli sono andati a consolidarsi ad Orbetello. Quando poi, nel frattempo, i senesi arrivano a occupare e presidiare Porto Ercole, la prima reazione degli spagnoli sarà quella di cacciare tutti gli orbetellani dal loro paese per avere più agio nell’affrontare il nemico. Nel corso degli anni precedenti c’erano stati molti casi di ribellione da parte della popolazione orbetellana contro la compagine spagnola che proprio per questo aveva deciso di mettersi nella condizione migliore per non incappare in brutte sorprese. Dunque non si può affatto parlare di schieramento della popolazione lagunare.

Si trattava invece dell’espropriazione di un luogo da parte di una forza militare straniera per ragioni di natura esclusivamente strategica. Anche perché, va detto, la popolazione locale era composta soprattutto da contadini e pescatori assolutamente anonimi, poveri e affamati. Per tracciare un profilo sociale: fino a poco prima c’era stato il commissario senese a Orbetello, il commissario senese a Talamone, il commissario senese a Porto Ercole che si tenevano in contatto e in considerazione a vicenda; ma per le popolazioni di questi luoghi non è che significasse qualcosa di cui tenere conto, al contrario erano spesso in lotta fra loro. Ad esempio c’era una forte contrapposizione fra i portercolesi e gli orbetellani, molto acuta (nel libro c’è un capitolo che si intitola “Portercolesi contro tutti”). Ma i portercolesi stessi si dividevano in due fazioni l’una contro l’altra per motivi religiosi: chi voleva andare sotto l’”Abbazia delle Tre Fontane”, chi sotto Sovana/Pitigliano.

Insomma i nomi che emergono dalle fonti riguardo a questi luoghi sono tutti forestieri, senesi per la maggior parte.

Sarà diversa, invece, la vicenda che avrà luogo molti anni dopo, nel 1646, nel corso di un altro assedio quando la popolazione orbetellana rimarrà dentro le mura e rivestirà il suo importante ruolo.

La vera e propria presa di Porto Ercole da parte degli imperiali ispano/fiorentini di Gian Giacomo Medici avverrà in meno di un mese, dal 25 maggio al 18 giugno 1555, sconfiggendo i franco/senesi per sancire in pratica la loro fine in quanto attore politico di rilievo. Sarebbe improprio parlare di assedio visto che le fortificazioni senesi erano disseminate (e separate) in più punti sul territorio e, prescindendo dalla propaganda, erano messe abbastanza male quanto a consistenza. Uno dopo l’altro i forti cadono o si consegnano e il capitano Piero Strozzi fugge nottetempo su una galera insieme a molti dei suoi ufficiali. Molti errori, ma la sensazione è che si trattasse effettivamente di un’impresa senza speranza…

Sì, si trattava proprio di un’impresa senza futuro. Siena era finita. A Montalcino resisteva un manipolo di caparbi, poche centinaia di persone. Per Piero Strozzi l’unica speranza erano i Turchi: si augurava che giungessero in tempo via mare con la loro enorme flotta a sbrogliare la matassa; l’obiettivo era dunque quello di resistere fino all’arrivo di Draghût Raìs. Il quale effettivamente arrivò, ma con colpevole ritardo

Per Piero Strozzi questa vicenda si era caricata di un forte investimento emotivo: ci teneva a fare bella figura con il re di Francia e soprattutto con Caterina de Medici, la regina, cui era profondamente legato. Caterina, cugina e acerrima nemica di Cosimo I de Medici (il nemico giurato dei fuoriusciti Strozzi) poteva perfino definirsi una ammiratrice di Piero Strozzi tanto da difenderlo a spada tratta in ogni occasione. Perfino in questa dove Piero fugge dalla guerra nottetempo e via mare per andarsi a rifugiare a Civitavecchia avendo giurato al contrario di resistere fino alla fine. Ma sì, va sottolineato che politicamente i giochi erano fatti.

Il libro si chiude con una carrellata dei maggiori e più importanti personaggi storici di queste vicende come il corsaro turco Draghût Raìs o l’ammiraglio genovese Andrea Doria, come i titoli di coda di un film. Sono loro i protagonisti, quelli che hanno fatto la storia di questo posto in quegli anni?

Sostanzialmente sì. E’ così, e non solo per quegli anni. Il fatto è che, pur essendo piccole come estensione, queste zone hanno avuto una notevole ricchezza di avvenimenti, in tutte le epoche. Questi sono stati luoghi di scontro importante per interessi di livello nazionale ed europeo ma gli avvenimenti più rilevanti sono sempre passati sopra le teste della popolazione locale.

In che modo crede che sia importante la divulgazione della storia locale declinata sullo sfondo di eventi storici di respiro più ampio? Raccontare e trasmettere queste vicende serve a capire le cose della vita in maniera più completa? Ad esempio: è importante sapere che Siena è stata per lungo tempo una Repubblica e non una Signoria? Qual è il lettore ideale di questo volume?

A me capita spesso di sprofondare nella lettura di libri di storia molto specialistici, pubblicazioni ben indirizzate, quasi un privilegio riservato ad un piccolo gruppo di studiosi e cultori della materia storica, nei quali si trovano riportate notizie importantissime sui luoghi che abitiamo, ma che sono solo appannaggio di esperti del settore. Per dire: quando mi sono interessato al Forte Stella ho scoperto che sul “Bollettino d’arte” era stato scritto un articolo fondamentale dall’architetto Nicoletta Urbini Maioli (il libro sullo stesso argomento lo ha scritto più tardi) ma solo per trovarlo, quell’articolo, ho dovuto sudare le proverbiali sette camicie. In definitiva quel testo è stato letto solo da un ristrettissimo numero di addetti ai lavori e qualche curioso più intraprendente.

Invece è importante divulgare cose di questo tenore perché la gente, il pubblico, noi tutti, possiamo avere l’opportunità di coltivare un genuino interesse nei confronti di questi argomenti, che ci appartengono profondamente. Ecco, mi sono detto, voglio scrivere dei libri che possano incontrare l’interesse anche del barbiere sotto casa.

Ha un romanzo storico o un autore preferito di cui consigliare la lettura? E lei professor Della Monaca ha in cantiere altri libri? Saggi o romanzi di genere?

Sono un affezionato lettore di tutti i lavori a carattere storico riguardanti la Maremma toscana, in particolare ammiro i lavori scritti da Mons. Pietro Fanciulli, che trovo ben scritti oltre che molto documentati. Da parte mia sto lavorando (sono ormai diversi anni) al “memorabile” assedio di Orbetello del 1646 su cui ho trovato un’enorme documentazione dell’epoca, conservata in vari archivi italiani ed europei. Spero a breve di portare a termine il lavoro.

Massimiliano Cavallo

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Dello stesso autore (con Alessandro Ferrini):

 

 

 

 

 

 

 

 

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Commenti

4 commenti a “Intervista a Gualtiero Della Monaca su “La presa di Porto Ercole””


  1. Riccardo ha detto:

    La Presa di Porto Ercole non è solo un ottimo libro, ma un testo fondamentale per il materiale che raccoglie. Come gli altri lavori che avete citato, colma un vuoto attraverso un prezioso lavoro di ricerca che consegna ai lettori una bussola di prim’ordine per orientarsi nel complicato scenario di quel periodo storico. In questo senso credo che il volume esca dall’ambito della storia locale, perché racconta un episodio nel quale si concentrano i destini dei grandi protagonisti dell’epoca, e diventa quindi un testo di riferimento per la ricerca in un ambito molto più vasto. Una domanda: è prevista anche una versione in ebook?

    • Massimiliano Cavallo ha detto:

      Ciao Riccardo, sono sulla tua stessa linea, e fra l’altro si tratta di scenari politici a dir poco intricati, ogni episodio è il tassello di un mosaico molto ampio che ha una sua coerenza che però si fa fatica a cogliere, quindi tutto serve a comprendere meglio… E’ un libro che va a colmare una lacuna storiografica: di sicuro la versione ebook avrebbe il non trascurabile pregio di essere immediatamente disponibile ed ubiquo. Nella domanda/risposta numero nove questo aspetto è ritratto nella maniera più opportuna.

      • Riccardo ha detto:

        Perfettamente d’accordo. Il digitale potrebbe semplificare la ricerca e la diffusione di lavori importanti come questo. Mi fa piacere che la Effigi abbia iniziato a percorrere questa strada. Continuate così.

  2. Alessandro ha detto:

    Un libro del calibro della “presa di porto Ercole”, restituisce alla memoria dei cittadini dell’Argentario, della Maremma Toscana e a coloro i quali amano questa terra, una preziosa opportunità di rimediare a tanti anni di oblio e di notizie frammentarie esistenti sull’argomento. Tra gli apprezzamenti “generali” che potrei fare al Professor Gualtiero per le sue numerose opere, sempre di altissimo valore storico-culturale, mi soffermo sulle stesse sue parole: l’ aver reso disponibili a tutti i lettori, fatti che spesso (e volentieri) erano custodite da piccole nicchie di esperti del settore. Nell’attesa del prossimo libro, all’Autore della “Presa di Porto Ercole” e a chi come lui, “suda sette camicie” tra gli archivi e le biblioteche d’Italia, vanno i ringraziamenti più sinceri da parte di uno tra i tanti lettori affezionati alla proria Terra.

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