Riportiamo l’intervento del Prof. Giancarlo Elia Valori, Presidente de La Centrale Finanziaria Generale S.p.A., avvenuto in occasione della presentazione del libro “La nostra controrivoluzione” del 29 settembre 2015, presso il Circolo Ufficiali delle Forze Armate d’Italia in Roma.
Autorità, gentili Signore e Signori,
consentitemi innanzitutto di porgere il mio vivo e sentito indirizzo di saluto a tutti Voi, unitamente agli illustri relatori e al moderatore dei lavori.
Sono particolarmente lieto di trovarmi qui, in questa incantevole Sala del Circolo Ufficiali delle Forze Armate d’Italia, dinanzi ad una platea così qualificata, per la presentazione del pregevole libro, “La nostra controrivoluzione”, redatto magistralmente dall’amico Guido Fineschi Sergardi, al quale rivolgo un cordialissimo saluto, unitamente ai più vivi complimenti per i contenuti della singolare opera.
Questa lodevole iniziativa editoriale, di facile e gradevole lettura, arricchita dalla prefazione dell’Arcivescovo Gianfranco Girotti, Reggente Emerito della Penitenzieria Apostolica, è una sorta di grande affresco storico, politologico e futurologico, le cui pagine si sfogliano con la suggestione di episodi che vanno oltre lo steccato della storia e dell’attualità per formare una riflessione lucida e appassionata sulla situazione sociale, economica e politica contemporanea.
È una carrellata di argomenti diretti al superamento delle difficoltà più vistose del nostro tempo, che hanno il pregio di penetrare nelle coscienze, tra i quali: giustizia, mafia, chiesa cattolica, massoneria, islam, famiglia, lavoro, contributi e fisco, immigrazione, forze armate, forze dell’ordine, Stati Uniti, Unione Europea; in cui l’autore da riposte puntuali attraverso avvedute considerazioni, dalla Seconda guerra mondiale ad oggi, su ciò che non va in Italia e, di riflesso, in altri paesi.
Tutto questo induce ad una riflessione sul momento difficile che stiamo attraversando, al fine di comprendere e cavalcare le sfide imposte dalla geopolitica della globalizzazione in una prospettiva originale e innovativa.
Cercherò quindi di non scadere nella gratuita polemica politica, ma di avviare un’analisi indirizzata alla costruzione di un nuovo percorso di modernizzazione in grado di stimolare sia una indispensabile crescita economica, sia l’elaborazione di una visione di maggior respiro sul futuro del Paese.
Una visione lungimirante indirizzata al futuro, che oggi, al contrario, appare purtroppo carente a causa di incertezze sociali ed economiche a livello globale.
Quali le cause?
Dati statistici, indici demografici, scenari economici e logiche politiche ci danno ormai piena coscienza di non vivere più in un mondo diviso tra Est e Ovest o tra Nord e Sud, ma piuttosto in una realtà multipolare dove le differenze non sono scomparse.
Viviamo cioè in un mondo integrato in cui però regna un disordine, che non è solo guidato tra le competizione fra le nazioni, dove tuttavia vi sono correnti che potrebbero portare in un mondo ancora più caotico, comunque composto da molti fenomeni che accelerano le disuguaglianze, ma anche da uomini, donne e bambini che attraversano i confini in un numero senza precedenti.
Stiamo quindi assistendo inerti a continui flussi di popoli in fuga da una violenza disumana e crudele, da una geopolitica ridisegnata dal fondamentalismo e da modelli di convivenza millenaria in frantumi, che stanno producendo nuove schiavitù nelle società opulente, spesso senza valori.
Siamo perciò al banco di prova di una coscienza matura perché sul terreno delle migrazioni si gioca la partita della costruzione di una civiltà più ricca di valori, dove la semplice e giusta posizione delle culture passa dallo stadio di pura necessità ad una vera scelta di civiltà.
A tal proposito, penso a quel divario che facilmente cogliamo tra i Paesi avanzati e in altri di più recente indipendenza dove si manifesta, ad esempio, nel diverso grado di sviluppo, nella disponibilità di tecnologia, nella speranza di vita delle popolazioni.
Ad una lettura superficiale sembra quasi che le vecchie divisioni del passato siano finalmente superate.
Invece rimangono presenti le chiusure, le esclusioni e, soprattutto, le forme di disumana violenza e di discriminazione.
La fine della cosiddetta Guerra Fredda tra due superpotenze, con il loro seguito di satelliti, ha comportato più che un mondo egemonizzato da Washington, un nuovo assetto dei rapporti fra grandi paesi.
È indubbio che oggi è difficile capire da che parte stiano sia gli ex satelliti degli Stati Uniti che quelli della Federazione Russa. Mentre Cina, Giappone, India, Brasile, Germania o Inghilterra sembrano procedere con la forza d’inerzia delle vecchie collocazioni strategiche, ma la situazione non può più essere “polarizzata” fra due superpotenze come un tempo, e neppure essere egemonizzata dall’unica potenza globale sopravvissuta.
Il mondo non è affatto “unipolare”, anzi, sembra che ognuno faccia per sé una guerra di tutti contro tutti, dove la multipolarità è espressa da una rete globale che avvolge il settore degli affari, della finanza, della religione e delle decisioni politiche: basti pensare ai cosiddetti Vertici che mettono ormai attorno ad un tavolo i leader mondiali dell’industria, della finanza, della politica o delle religioni.
Risulta quindi irragionevole pensare a ciò che accade al mondo d’oggi: il livello di disuguaglianza e quello di disoccupazione, l’immigrazione, nonché i conflitti etnici, culturali, religiosi, che alimentano guerre tribali in Africa e Medio Oriente, dove grava anche la cappa del terrorismo, associata a quelle forme di violenza sempre in crescendo.
Di fronte a questi molteplici aspetti i segni dei tempi sollecitano scelte coraggiose in risposta alle sfide che il mondo contemporaneo ci pone, in cui noi stessi rischiamo di trovarci impreparati, sia perché sovrastati dalla velocità con cui le cose intorno a noi cambiano, sia perché appiattiti dalla routine e dall’ordinarietà delle scelte.
Detto questo, è opportuno valutare le conseguenze delle politiche che i governi portano avanti riguardo i maggiori problemi sociali: il lavoro e il benessere.
Il tema del libro mi induce a commentare fino a che punto le misure che perseguono gli obiettivi tradizionali della politica economica possano avere effetti deleteri su altri obiettivi, di fatto più importanti per le nostre società.
In particolare, risulta oltremodo evidente che le politiche di austerità condotte attualmente in Europa influiscano negativamente sia sul benessere sia sulla sostenibilità.
Tale situazione risulta favorita dalla progressiva decadenza della classe politica che, priva di coraggio e lungimiranza, dimostra di non avere un preciso radicamento sociale.
Per cui la politica ha ormai da tempo perso la necessaria capacità di rappresentare e interpretare la realtà e di dirigere il cambiamento coordinandosi con gli altri poteri.
La perdita di rappresentatività ha determinato inoltre un vuoto di potere che tende ad essere riempito, talvolta convulsamente, da altri soggetti istituzionali ed extraistituzionali che, in tal modo, disarticolano il sistema, rendendo essenziale una nuova fase costituente alla ricerca della formula della governabilità.
Detto questo, ricordo che a otto anni di distanza dall’inizio della crisi economica in USA e in Europa, e a sei della sua fittizia trasformazione, per mano delle istituzioni e dei governi dell’Unione, dal peggioramento del sistema finanziario privato alla crisi del debito pubblico, l’Italia si ritrova con un governo che da un lato è allineato con le posizioni più regressive della troika (la quale forma di fatto una quadriglia con Berlino), dall’altro non ha evidentemente la minima idea circa le cause reali della crisi, e meno che mai delle strade da provare o da costruire per uscirne.
E nel rimarcare questa tesi, elenco alcuni antefatti dei problemi che ci preoccupano.
In primis vi sono l’Europa e gli impegni.
Forse molti non sanno che l’Unione europea non comporta l’adozione di una moneta comune (l’euro).
I Paesi dell’Unione che hanno adottato l’euro sono 17, mentre i Paesi ancora senza l’euro sono 11.
A parte l’Inghilterra che mantiene la sterlina e che è il caso più importante, sono fuori dall’euro: Danimarca, Svezia, Polonia, Ungheria, Romania e altri Stati.
L’Unione europea nacque quando venne di moda – diciamo così – la “globalizzazione”. S’intende che la globalizzazione finanziaria venne da sé, con la tecnologia che la rendeva non solo possibile ma anche ineluttabile.
La globalizzazione economica è tutt’altra cosa, avendo in mente, per l’Europa, il modello Stati Uniti.
Il problema è che un sistema federale richiede un linguaggio comune.
Gli Stati Uniti parlano l’inglese, la Germania il tedesco, l’India ha ereditato l’inglese, il Messico lo spagnolo, il Brasile il portoghese.
L’Europa, invece, parla 22 lingue, che certo non possono alimentare una aggregazione federale.
Invece l’Europa può diventare una Comunità economica, che oggi è la comunità dell’euro.
Purtroppo la messa in opera di questa Unione è stata frettolosa e insufficientemente pensata.
Tutti gli Stati del mondo controllano la propria moneta e si possono difendere, economicamente, con dazi, dogane, e anche svalutando o rivalutando la propria moneta.
Così gli Stati Uniti tengono il dollaro “basso” per facilitare le proprie esportazioni. Invece, l’Unione europea è una comunità economica indifesa.
I singoli Stati che la compongono non possono stampare moneta, né difendere le proprie industrie con barriere doganali, né impedire che le popolazioni più povere dell’Unione si trasferiscano dove lo Stato sociale paga meglio.
Infatti quattro Paesi – Germania, Gran Bretagna, Austria e Olanda – chiedono di poter rifiutare il welfare agli emigrati comunitari.
Quali sono, in sostanza, le nostre colpe?
“In questa vicenda tutti hanno le proprie colpe”, scrive il politologo Giovanni Sartori.
Ma ne hanno di più i Paesi mediterranei, Italia inclusa, che si sono dati alla bella vita indebitandosi oltre il lecito.
L’ora della verità è scoccata, ahimè, troppo tardi per i Paesi che sono riusciti ad accumulare un debito pubblico (Buoni del Tesoro) che supera abbondantemente il PIL.
“Come possono risalire la china nella quale sono colpevolmente precipitati?”, si chiede, preoccupato, Giovanni Sartori.
Ormai in Italia la pressione fiscale è altissima, a livelli che soffocano la crescita, mentre l’evasione fiscale resta largamente impunita.
Ora veniamo al caro euro.
Dovremo esportare di più. Ma qui l’ostacolo è, come ho già accennato, che la nostra moneta, l’euro, è sopravvalutata rispetto al dollaro.
In passato, nel 1972, avevamo escogitato il “serpente monetario” europeo che consentiva fluttuazioni delle monete entro una fascia del 2,25 per cento.
L’esperimento fu utile, ma venne sostituito nel 1979 dal sistema monetario europeo (Sme), che venne a sua volta sostituito, da ultimo, dalla Banca centrale europea di Francoforte.
Crescita zero, dunque! Varrebbe la pena di resuscitare un nuovo “serpente” sotto il controllo, beninteso, di Francoforte?
Non lo so. Ma varrebbe la pena di pensarci. Perché da 14 anni la crescita dell’Italia è vicina allo zero.
Ricordo che il nostro Paese è particolarmente a rischio anche per le ragioni che passo rapidamente ad elencare.
Primo, risultiamo, nelle graduatorie internazionali, tra i Paesi più corrotti al mondo.
Il monito è stato lanciato lo scorso anno dal Commissario Ue alla giustizia, i Diritti fondamentali e la cittadinanza, Viviane Reding, che aveva presentato i risultati di un monitoraggio sui sistemi giudiziari dei 27 Paesi membri.
Tra le piaghe del rapporto, lo strumento per individuare obiettivi strategici sul sistema giudiziario, emerge che in Italia occorrono in media più di 800 giorni per risolvere le cause civili e commerciali.
Quali i rimedi ?
Innanzitutto è necessario avere un sistema giudiziario indipendente ed efficiente, fatto di giuste riforme giuridiche, che sono diventate una componente strutturale importante della strategia economica dell’Europa.
Perché spiegava il Commissario Viviane Reding (oggi sostituita da Věra Jourová): “un Paese attrae business se ha una giustizia indipendente ed efficiente”.
In tale contesto, non bisogna dimenticare che, tra l’altro, siamo anche i creatori della cosiddetta “onorata società”, volgarmente “mafia”, e per essa siamo un Paese forse più tassato dal pizzo che dallo Stato.
Associamo poi l’altissima inefficienza burocratico-amministrativa. A tal punto che i fornitori dello Stato vengono pagati con nove-dodici mesi di ritardo.
Un vero scandalo, dunque, per cui non vedo proprio come investitori stranieri siano, in queste condizioni, tentati di investire in Italia.
È spaventoso constatare che un italiano su quattro è a rischio povertà o esclusione sociale.
Perciò quando ci interroghiamo sul futuro del nostro Paese finiamo quasi sempre per trarre conclusioni pessimistiche.
Non mancano comunque motivi di fiducia, ma questi non ribaltano la nostra valutazione.
Semmai aumentano l’amarezza per una deriva che sarebbe evitabile solo se lo volessimo, solo se risvegliassimo in noi il senso di appartenenza ad una Comunità ricca di storia, di talenti o di grandi personalità, che hanno tratti comuni, nel moto continuo e diacronico che si tramanda fra gli spiriti magni di maestri e maggiori.
Amarezza e fiducia si intrecciano quando osserviamo i tanti talenti che si sprecano, oppure i tanti casi di persone che, con abnegazione e fantasia, lavorano silenziosamente per migliorare le condizioni di vita della collettività di cui fanno parte.
Sono casi non sempre noti, ma che bisogna far conoscere anche per la grande forza di contagio che recano in sé.
Dopo aver ricordato sommariamente le cause di questo gravissimo stato di cose, di cui molto si dice e molto si scrive, non voglio aggiungere altra prospettazione alle tante, più o meno plausibili, che circolano.
Mi sembra più opportuno, invece, domandare se e come l’Italia può uscire dal puntano in cui è finita.
Attualmente, che ne possa uscire non ho dubbi.
Ma non ho neppure dubbi sul fatto che non esistano ricette belle e pronte, capaci di produrre effetti immediati.
Non esistono quindi soluzioni miracolistiche.
Di questo dobbiamo essere consapevoli e guardare con sospetto e scetticismo a tutti coloro che ci vorrebbero far credere il contrario.
La strada comunque è lunga e impegnativa.
A mio modesto parere, occorrerebbe cominciare dall’ingegneria politico-istituzionale.
Bisogna prendere atto che il bipolarismo (con il connesso leaderismo) non ha funzionato.
Sarebbe comunque sbagliato e ingeneroso darne la colpa ai leader che si sono succeduti: e, infatti, non gliela diamo.
Diciamo solo che in Italia il bipolarismo come metodo di governo non funziona.
Sappiamo bene che altrove ha funzionato e sappiamo anche bene che, nel nostro Paese, sono tanti coloro che considerano il bipolarismo una vera e propria conquista, sulla quale non bisogna neppure aprire la discussione.
Noi però siamo convinti del contrario: non solo il bipolarismo ha fin qui prodotto guasti ma, ciò che è peggio, promette di produrne altri ancora maggiori.
Più che le nostre qualità esso, infatti, esalta i nostri difetti: spinge alla contrapposizione, alla visione di breve periodo, alimenta l’illusione che tutti i problemi si possono risolvere, hic et nunc, (qui ed ora) con un provvedimento normativo, con una riforma.
E così viviamo nell’attesa messianica “delle riforme”, che il più delle volte si rivelano per quello che sono: riforme malfatte, riforme fallite, perché concepite al di fuori di un coerente disegno complessivo.
L’Italia, invece, ha bisogno di un grande Progetto-Paese e di una Forza politica sana, che abbia al suo interno un gruppo di persone capaci di attuarlo.
Per questo occorre una rinascita della componente ideale e morale della politica.
Perciò senza la forza degli ideali la politica si impoverisce e diventa solo una spregiudicata lotta per il potere.
Intendo dire quella politica – quella che, sia chiaro, si nutre anche di risentimenti, dispettucci, gelosie, invidie, personalismo sfegatato e concorrenza sleale – che è anche capace di creare divisioni all’interno stesso dei Partiti.
Ed è triste constatare l’appannamento della intelligenza umana che, violentata dell’egocentrismo e dal protagonismo, finisce col precipitare nel nullismo in danno dell’unità e del beneficio di chi sulle divisioni altrui crea il proprio “impero”.
Le tristi vicende cui stiamo assistendo dimostrano come sia difficile sacrificare sull’altare dell’unità politica le bizzarrie del personalismo esasperato.
Si impone quindi una buona dose di volontà e di educazione civica. Ma anche un pizzico di umiltà e, in particolare, un momento di attenzione per poter raffrontare, in piena serenità, le peculiarità e le caratteristiche delle parentesi storiche di ieri e di oggi.
Quindi, di conseguenza, bisogna poter scegliere, col metro dei fatti e delle prospettive, la strada giusta e le linee programmatiche possibili e praticabili.
In questa breve riflessione, credo si debbano collocare i passi da compiere con la testa sul collo e senza indulgere a sentimentalismi anacronistici o a desideri assurdi.
Diversamente, il rischio di sparire dalla scena, fagocitati dai più forti, diventa, purtroppo, una malattia mortale, anche perché inevitabile.
La riconciliazione, dunque, tra le “energie” cattoliche impegnate in politica va considerata come esigenza di sopravvivenza da non eludere se si vuole, in sostanza, che i valori del Cristianesimo – come ci ricorda quotidianamente Papa Francesco – siano posti alla base d’ogni impegno politico mirato al progresso e al benessere nella solidarietà e nella convivenza civile.
Oggi e non domani. Ogni ora che passa si trasforma, se non vissuta nell’unità, in un passo indietro e, in definitiva, nel crollo d’ogni speranza.
I giochetti non servono più! Perché i tempi reclamano intelligenza e tempestività! Non posiamo più vivere alla giornata!
Dobbiamo cioè darci delle mete. Del resto siamo in epoca di globalizzazione e, se non vogliamo soccombere, dobbiamo darci un ruolo nella nuova “divisione planetaria del lavoro” che è la naturale conseguenza della globalizzazione.
Dobbiamo abituarci a pensare in termini di medio-lungo periodo, che non è – sia chiaro – una fuga dalle difficoltà dell’oggi e dalla durezza dei problemi che abbiamo di fronte; è piuttosto un modo per affrontare con metodo e coerenza questi problemi.
Ricordiamoci che, per livello di reddito medio, noi italiani siamo nel primo 10-12 per cento del mondo.
Dietro di noi, dunque, si agita l’88-90 per cento dell’umanità: un’umanità che vuol crescere, vuole svilupparsi, vuole aumentare il proprio reddito.
Nessuna posizione possiamo dare per acquisita.
Detto ciò, sono comunque convinto, che su quella scala possiamo addirittura salire, perché il Paese ha i numeri per farlo.
Il Progetto-Paese al quale ho accennato dovrà, in primis, occuparsi di economia, ma lo dovrà fare partendo dagli uomini e dai loro bisogni.
Al centro del Progetto, dunque, deve esserci la persona. Per due fondamentali ragioni: innanzitutto perché sia la politica che l’economia non sono fini a se stesse, ma vanno poste al servizio dell’uomo e dei suoi bisogni, a cominciare dalla necessità di lavorare: lavoro che a noi appare come un diritto-dovere di ogni uomo.
Produttività ed efficienza del lavoro sono cose essenziali, che non sin possono trascurare, pena la l’emarginazione del Paese e il suo progressivo impoverimento.
Ma di esse non bisogna fare un feticcio, occorre sempre armonizzarle con il rispetto e la dignità delle persone.
Vi è poi un’altra ragione per pone la persona al centro del Progetto-Paese.
A mio parere, all’origine di molti nostri mali vi è un rapporto sbagliato, ambiguo, tra Stato e cittadino: là dove dovrebbero esserci collaborazione e amicizia, vi sono contrapposizione e diffidenza.
Lo Stato, infatti, considera il cittadino poco più che un suddito, da guardare sempre e comunque con sospetto.
Dal canto suo, il cittadino ricambia: vedendo nello Stato una controparte esosa, esigente, debole e forte allo stesso tempo, dalla quale è bene stare prudentemente lontani, riducendo al minimo i rapporti.
Ne deriva un cittadino sempre più chiuso nel suo privato, sempre più disinteressato alla cosa pubblica; e uno Stato che non si limita alla sue funzioni naturali, ma fa di tutto in tutti i campi, occupando spazi che dovrebbero essere lasciati alla libera iniziativa delle persone e delle loro organizzazioni.
Di qui l’inesorabile crescita della spesa pubblica e delle imposte e la conseguente inefficienza della Pubblica amministrazione.
Solo riducendo questi compiti si potranno ridurre sia le spese che le imposte.
E solo riducendo questi compiti si può aumentare l’efficienza della Pubblica amministrazione e ridurre, così, ulteriormente la spesa.
Non possiamo andare avanti con “tagli” indiscriminati.
Sono fermamente convinto che nel nostro Paese la spesa pubblica possa diminuire, forse anche di molto.
Ma può diminuire solo a condizione che si riesaminino pazientemente l’organizzazione dello Stato e il modo di produrre i servizi.
È illusorio pensare di ottenere risultati duraturi senza mettere mano ai processi organizzativi.
Del resto la nostra macchina statale ha oltre 150 anni di vita.
Nel tempo, le abbiamo affidato sempre nuovi compiti e non l’abbiamo mai sottoposta ad una vera revisione.
È prevedibile che in essa vi siano larghe aree di inefficienza.
Come insegna l’esperienza delle grandi aziende di tutto il mondo, le inefficienze non si eliminano con “tagli” indiscriminati ma solo attraverso programmi di ristrutturazione, costruiti per quanto è possibile con il consenso delle persone che ne sono toccate.
Oltre a ciò, servirebbe uno Stato in grado di tornare alla politica industriale, perché occorrono come il pane strutture e infrastrutture, centri di eccellenza in cui far incontrare ricerca e impresa, università trasformate in laboratori di modernizzazione permanente, più incentivi agli investimenti per l’innovazione, nonché un’ulteriore diffusione del venture capital e di fondi di investimento in tecnologia.
Allo stesso tempo, non posso non accennare all’importanza di una tanto attesa riforma del fisco, indirizzata ad omogeneizzare la tassazione delle imprese italiane con i sistemi fiscali dei Paesi più avanzati, di alleggerire la pressione tributaria e di semplificare il prelievo delle imposte.
Oggi il Paese ha un fortissimo bisogno di un fisco che stimoli la crescita, di una burocrazia di livello europeo, di un forte ampliamento del credito; insomma, di un Paese capace di costruire lo sviluppo.
Le priorità che abbiamo davanti sono tante e, quindi, mi è difficile attribuire una precedenza.
Ho cercato di fare un’analisi delle cause fondamentali e dei principali strumenti per la costruzione di un nuovo sistema-Paese, perché credo sia anche indispensabile dar vita ad una “nuova borghesia”, ad un ceto dirigente capace di favorire l’innovazione sociale, in grado di promuovere il merito e, quindi, di valorizzare i giovani.
Solo così l’Italia potrà uscire da questa crisi profonda e vivere, nella civiltà e nella giustizia distributiva, l’intensità e l’efficienza delle conquiste democratiche del benessere e del progresso, il più ampiamente partecipato.
Il benessere e la felicità individuali possono essere raggiunti, paradossalmente, soltanto mediante il perseguimento dell’interesse generale.
Non è facile.
Ma è indispensabile essere coscienti e cercare di impegnarsi per essere protagonisti del futuro.
In conclusione, rinnovo i complimenti all’amico Guido Fineschi Sergardi per la pregevole iniziativa editoriale, unitamente alla più viva gratitudine per aver dedicato nel capitolo “Titoli ed Onorificenze” dei passi in memoria di mia madre Emilia, insignita della “Medaglia d’Oro al Merito Civile”, con la seguente motivazione: “Donna di elevatissime qualità umane e morali, nel corso del secondo conflitto mondiale, con eroico coraggio e a rischio della propria vita, offrì sostegno alle forze partigiane e organizzò un’attività clandestina per dare ospitalità e assistenza a molti ebrei e ad altri perseguitati, che riuscì a sottrarre alla deportazione e alla morte. Fulgido esempio di elette virtù civiche, di abnegazione e di generoso altruismo fondato sui più alti valori dell’umana solidarietà. 1938-1945 Meolo (VE)”.
Grazie per l’attenzione.