Destra per il potere e destra per il buon governo
Per strada, incontro un esponente del centrodestra genovese e tento di approfittare della fortunata occasione per esporgli i problemi, che mi assaltano e affliggono quando penso allo stato comatoso e grottesco della politica moderata dalla padrona del cane Dudù. Desolato, accenno allo strano comportamento della badante del capo, che chiede ed ottiene la tessera della sinistrorsa associazione Arci-gay. L’alta personalità si irrita, aggrotta le sopraccilia e m’interrompe con un gesto severo. Infine mi ammonisce autorevolmente: “Pensiamo alle elezioni. Si profila la possibilità di vincere“. Evidentemente il successo drizza le gambe dei cani e nobilita gli omofili.
Per sganciarmi alla svelta fingo contentezza. Mi allontano dal fiducioso esponente, convinto che sia inutile chiedere l’uso che sarà fatto del consenso annunciato dal tacitante pronostico.
Mentre cammino alla mentre si affacciano spinose domande. L’impellente voglia di vincere esenta dalla fatica di pensare criticamente? È lecito il sospetto che l’attività politicante non oltrepassi il bene promesso alle natiche candidate alla poltrona vittoriosa/gaudiosa/prestigiosa? La finalità della politica è galleggiare sulle frizzanti acque della vittoria fine a se stessa? Nella riflessione politicante, il bene comune è in prima linea o è altro ed eventuale? Più altro che eventuale?
Misteri della democrazia liberale, sedente e spensante ad alta tariffa. Perché il verbo governare, infine, scivola nel verbo sedere? Perché la domanda sulle classiche finalità dell’agire politico è respinta nel margine scivoloso/vaselinoso della vittoria fine a se stessa? Perché la politica propriamente detta è sorpassato dal culto della cadrega?
Forse conviene interrogare il margine, cioè la società civile, in cui si rifugia il segregato e silenziato buon senso.
Guido Fineschi Sergardi, ad esempio, milita da non politicante in quella minoranza intelligente e laboriosa, che è ancora capace di riflettere con serietà e libertà sul bene comune.
Il bel libro La Nostra Controrivoluzione, edito in Grosseto da Effigi, testimonia l’appartenenza dell’autore a all’ardimentosa, eretica scuola di pensiero, che insorge contro il neopaganesimo, promosso “da piccoli gruppi estremamente aggressivi composti da cialtroni ignoranti, che stanno cercando di distruggere la famiglia, l’ultimo tassello della società e dello stato“.
La contestazione del paganesimo radical-chic è un sicuro passaporto per il margine e il cono d’ombra. Fineschi Sergardi propone un’imperdonabile resistenza al potere costituito dal delirio di massa, dal teppismo manifestante, dalla ubriacata società dei filosofanti, dalla mano morta ateista, dal vizio contro natura infiorato e incensato da avventizi turiboli, dalla cialtroneria senza freni, dalla volgarità squillante e abbaiante.
La levatura dello scritto in questione è riconosciuta da un illustre prelato, S. E. Gianfranco Girotti, Reggente emerito della Penitenzieria Apostolica, il quale apprezza e loda il lavoro di Fineschi Sergardi, il cui arco tematico “va dalla famiglia in dissesto, al lavoro sempre più scarso e di carattere sempre più specialistico“.
Di seguito il prelato (verosimilmente marginalizzato dal potere esercitato dalla teologia sudamericana) sostiene: “Oltre che denunciare cadute di tono in campo morale e scelte politiche talvolta dissennate” l’autore formula proposte intese a dare “stabilità alla famiglia, formazione solida ai giovani, dimensione più umanamente coinvolgente al lavoro“.
Il saggio di Fineschi Sergardi ha una qualità che invano si manifesta negli uggiosi discorsi dei politici di professione, affaccendati nell’attività intesa a umiliare la tradizione, destabilizzare e snaturare la famiglia, diseducare i giovani, avviarli alla rivolta impotente e all’omofollia.
È un testo scritto per rammentare l’esistenza di barriere all’invidia, vizio sociale che nasce fra i banchi delle scuole, dove i figli dei ricchi esibiscono abiti costose e gli altri vesti anonime.
Un confronto penoso, che il buon senso potrebbe facilmente evitare per mezzo degli accorgimenti intesi a prescrivere la sobrietà del vestire. Metodi efficaci ma disprezzati dalla furente demagogia al potere: “se proponi ad esempio di usare delle belle divise scolastiche, qualcuno griderà subito al Fascismo. Solito ridicolo. Piuttosto sarebbe un sistema per eliminare le differenze tra i bambini ed i ragazzi nelle scuole, ormai tutti troppo griffati, oltre a dare un esempio di ordine e pulizia“.
L’acume dell’analisi, l’attitudine dell’autore a interpretare il presente, si manifestano nel breve e fulminante capitolo intitolato Banche, in cui si legge: “A parer mio le banche hanno tirato troppo la corda e rischiano di cadere e farsi male. Un famoso banchiere, il Barone Nathan de Rotschild, affermò che il momento di comprare è quando il sangue scorre per le strade. Forse qualche banchiere di oggi ragiona alla stessa maniera e ne sta cercando l’occasione, ma dovrà fare attenzione, che rischia il suo a scorrere“.
Controrivoluzione significa anticonformismo a tutto giro. “L’anticonformista è colui che va contro. Colui che non si conforma e si ribella ad usi e costumi prevalenti nell’epoca in cui si vive. Ciò vuol dire oggi, dove più volgare sei più hai successo e la volgarità insegna e viene freneticamente ricercata, seguire l’eleganza tradizionale. … Un giovane che oggi voglia essere ribelle ed anticonformista, è colui che non si veste da straccione, che non si fa il piercing, che non parla in una lingua incomprensibile, usando termini pesanti, volgari, perché così fan tutti. … colui che pensa al bene della collettività, della Patria ed infine colui che non considera la scaltrezza disonesta ed il furto legalizzato, come un sistema di vita da emulare e realizzare“.
La sobria eleganza, la dignità del vestito, il rispetto della legge, la cortesia esprimevano l’intenzione reazionaria di vivere onestamente. La passione vandalica invece si esprime nel linguaggio della sciatteria da palcoscenico rivoluzionario.
Purtroppo la falsa povertà conquista il cuore del pensiero tenero. L’incendiaria e scomposta sociologia, messa in scena dai signorini/birichini del Leoncavallo, è approvata e benedetta perfino dall’aspersorio buonista/pauperista del vescovo di Roma.
Fineschi Sergardi afferma: “io sono un tradizionalista, lo sono sempre stato anche da giovanissimo, ma pur tenendo e volendo conservare quel che c’è di buono nel passato, è avanti che bisogna guardare“. Se non che lo spettacolo in scena “avanti” costringe a fare un passo indietro, dove si trova la finestra rivolta al cielo.
Dal cielo impariamo l’amore per il prossimo. Ma la carità è altro dall’obliquo buonismo, che suggerisce la svalutazione delle virtù cardinali, prudenza, giustizia, temperanza e fortezza
Fineschi Sergardi afferma risolutamente il primato della carità, “Il vero peccato è l’odio e bisogna difendersi dal provare un tale sentimento“, ma rammenta che la più alta virtù non esclude l’obbligo di reagire all’aggressore: “se [i terroristi islamici] vengono a minacciare la pace e la vita della mia famiglia ho il diritto ed il dovere di difenderla con le armi“.
La politica deve e può riconquistare lo spazio occupato dal frastuono politichese ma è necessario che uomini di buona volontà scendano in campo per rammentare che la linea più breve tra l’onesto desiderio e il suo compimento passa per il cielo delle virtù naturali e cristiane.
Politicamente scorretta, la testimonianza di Fineschi Sergardi espone il pensiero cristiano che è nascosto nel cuore della gente italiana, popolo silenziato e costretto a disprezzare la sua antica virtù.
L’Italia nutre il segreto desiderio di un domani diverso e irriducibile alla tenebrosa, infernale Babilonia, che bolle nella pentola dei politicanti insediati e dei teologi modernizzanti. Un avvenire opposto a quello progettato dalla banca thanatofila e dalle associazioni pederastiche.
Prof. Pier Angelo Vassallo