Il naso del babbo

Non era certo la prima volta che si mascherava: anzi.
Eppure quell’anno niente Zorro, niente Cowboy, niente Arlecchino, Pulcinella, e meno che mai quegli strani eroi della televisione che urlavano tutto il tempo.
Voleva mettersi la tuta del babbo suo.
Che c’entrava la tuta del babbo con il Carnevale, mi chiedevo, cercando inutilmente di scandagliare la sua decisione.
Quella per noi era una reliquia, dopo la disgrazia che era accaduta; l’avevamo conservata così com’era, senza neanche lavarla, con i guanti, l’elmetto e la lampada ad acetilene.
Ma lui non volle saperne: aprì l’armadio della vecchia camera da letto in fondo al corridoio, afferrò quella Sindone e cominciò ad infilarsela nel gesto giornaliero replicato per anni, anni e giorni, giorni e ore.
Sottoterra prima del tempo.
In quel momento la nonna, incuriosita dal trambusto in camera sua, s’affacciò alla porta.
Fu un attimo: incrociò le mani e se le portò dinanzi alla bocca, senza fare un fiato.
Agostino, segnato all’anagrafe dell’acqua santiera con lo stesso nome del progenitore, finì di prepararsi e s’accostò alla nonna.
Lei gli mise la mani sul viso e lo squadrò da cima a fondo.
– Aspetta: una cosa ti manca, ancora.
Aprì un piccolo cassetto del comò e prese delicatamente la cosa custodita dentro un piccolo panno di velluto rosso e gliela infilò addosso.
– Ecco: adesso sei perfetto.
La piastrina con il numero scolpito dondolava ora davanti al petto a costole vive del suo nipote.
– Adesso sembro un vero minatore?
– Di più: sembri proprio il babbo e il nonno prima di lui.
Agostino sorrise e si fiondò in cucina, mise un pezzo di pane dentro la gavetta appesa al muro sotto il grande camino, e mestolo in mano ci versò un avanzo di minestrone, afferrò il casco e uscì.
Dalla finestra si vedeva bene che i pantaloni gli strusciavano a terra, che le maniche gli stavano tutte arrotolate e che il resto gli sbatteva facendo aria dappertutto: un panno appeso sui fili.
Ma il portamento era quello: non poteva tradire.
La nonna si mise a sedere, appoggiò le mani sul tavolo della cucina e guardò fuori con gli occhi appena lucidi. Ogni stilla di sale una goccia di memoria. Ogni goccia di memoria una screpolatura sul cuore.
In quel momento un unico, singolo, fiocco di neve fece capolino.
Anche il cielo era sceso in saluto: omaggiava il passo battuto sui sassi provati dal tempo e saggiati alla fatica.
E così, nella tarda sera di quella lunga giornata di corse e stelle filanti, mi stendo a schianto sul letto.
È vuoto e freddo.
Provo a scaldarlo con la borsa termica ma resta sempre il vuoto.
Anche la federa del cuscino accanto non l’ho ancora lavata: c’è l’odore di lui…del mio uomo in amore e del lavoro che l’ha portato via prima del tempo, troppo.
Ed io, che faccio io, adesso?
Ogni sera la stessa domanda, ossessiva, incartata dentro le ossa, velenosa al sangue. Solo le lacrime a sciogliere i pugni, alleviare il cuore, smussare la punta del dolore conficcato a corona di spine sulla pelle.
Quando prima di fare mattina, sento ancora gli altri minatori chiamarsi per andare, perché tutto deve continuare, come faccio? Dove spengo il dolore e la nostalgia? Con quale filo devo tessere la nostra trama, ora? Nelle giornate dove neanche un po’ di vino consola mi chiedo perché: perché non ci sei più? Perché è dovuto toccare proprio a te che ridevi la vita e me la facevi sorridere fin dentro la pancia, scaldandomi tra le lenzuola gonfie degli abbracci a luna piena oltre la finestra aperta.
Come faccio a non pensarti, amore mio? Come faccio a non ritornare a quello che t’è successo là sotto?
Come faccio a trattenere, stampato a fuoco sulla bocca, l’ultimo tuo bacio zolfoso?
E quanto può essere lunga una notte buia con questo vuoto dentro e fuori?
Lo so, lo so benissimo che negli ultimi istanti avrai pensato a me, a noi, mentre all’inizio avrai temuto soprattutto per i tuoi compagni di lavoro, quelli che difendevi per far onorare i contratti, quelli che portavi in città a reclamare il giusto, quelli con cui bevevi l’ultimo bicchiere di acquato per non tornare a casa troppo stordito.
Meno male che mi hai dato Agostino. E’ lui, ora, che mi tiene in vita.
Almeno lui, accovacciato nel suo lettino, sa che sono qui.
Sa che ci sono, che ci sarò sempre.
Appena indossata la vestaglia come ai tempi dell’amore, mi alzo e vado a rimboccargli le coperte, a poggiare un ultima carezza, per me e per te, sui suoi capelli arruffati che sembrano un cespuglio nuovo fatto a seme tuo.
Mi sente e si gira, piano.
– Mamma…mamma…
– Che c’è, sei ancora sveglio?
– Sì, mamma, non riesco a dormire…
– Aspetta che ti coccolo un po’, dai.
Lo stringo sul mio petto, sento le sue ossa farsi strada tra le mie, sento il suo aroma grezzo e fresco assomigliare al tuo, tanto, al punto che devo distanziarmene un momento. E quando si rigira offrendomi la schiena conto le sue vertebre, semi di un rosario.
– Mamma, ma è vero che la miniera che s’è preso il babbo non ce lo ridarà più?
– Eh sì, figlio mio, era troppo bravo..
– Non si poteva fare un po’ per uno?
– Eh no, che vuoi farci?
– E’ perché il babbo e il carbone erano troppo amici.
– Sì, piccolo: tanto, tanto amici…il babbo lo conosceva bene il carbone, sapeva dove si metteva quando giocava a nascondino in mezzo alle rocce, e allora piano piano, col piccone e la pala, andava frugando fino a scovarlo, lo scovava sempre.
– Anche a me mi trovava sempre, nella madia, quando mi nascondevo per gioco.
– Certo, aveva un bel naso da fiuto, il babbo.
– Anch’io ho il naso del babbo?
– Quasi, ma il tuo è più bello.
Cresciuto a traccia sul calco previsto, il cucciolo che stringo addosso a me sta salendo bello come te, amore mio: un sole anche di notte direbbero i vecchi. I denti sani, tutti bianchi; la mani forti, a stringere legna e sega; le gambe lunghe a salto, capriolo verso la fonte, e la testa fine, acuta, messa di traverso come l’anarchia che ti portavi addosso.
– Posso tenere in mano questo pezzetto di carbone?
– Quale pezzetto di carbone?
– Questo…
– Ma dove l’hai trovato?
– Nei suoi pantaloni…e allora? Posso tenerlo?
– Solo un momento, però…
– Va bene
– Ma che devi farci, testone?
– E per via del babbo: qui dentro lo sento mentre mi dà la buona notte.

Stefano Lucarelli

Commenti

1 commento a “Il naso del babbo”


  1. Stefano Lucarelli ha detto:

    Il testo che avete letto qui sopra ha partecipato al Concorso Letterario di Seggiano ed è stato scelto dalla giuria tra i finalisti, raggiungendo il 2° posto. Misurarsi nei concorsi, soprattutto quelli di prossimità, mi permette di far conoscere il mio lavoro e di confrontarmi con altri autori. Inoltre sono luoghi che posso raggiungere anche in altri momenti e propormi per letture e reading dei miei testi. Ringrazio la giuria per la scelta, il premio ricevuto in acquisto libri e la ceramica-targa di partecipazione.
    Spero piaccia anche a chi leggerà…

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