Il cigno nero di Jennifer

01 novembre 2118

Oggi compio diciassette anni.
Sono nata infatti il primo novembre 2101, a due anni esatti dalla scomparsa di Jennifer, che impropriamente viene definita mia sorella.
Ma, per capire meglio, bisogna partire dal principio e il Principio, in questo caso, si chiama Camilla, nostra madre.

Come si può definire una casalinga del ventiduesimo secolo?
Me lo sono chiesto spesso, mi sono domandata come sia possibile che una donna di quest’epoca sia stata così impermeabile rispetto all’emancipazione femminile.

Eppure, la sua bisnonna, Gaia, classe 1955, era un medico. E la figlia di Gaia, Silvia, ovvero la nonna di mia madre, un avvocato penalista piuttosto noto. Mia nonna Lara, poi, nata nel 2021, era addirittura ingegnere civile, principalmente dedita alle grandi opere pubbliche, ponti, strade, viadotti.
Dunque, una famiglia di valchirie, come le definiva Camilla, sprezzante.

Poi era nata lei e aveva riequilibrato il progresso familiare.
Fidanzarsi a sedici anni e sposarsi a ventidue è sempre stato un po’ azzardato, perfino nel ventesimo secolo, ma la mia gentile genitrice è riuscita a farlo pur essendo venuta al mondo nel 2061.
Sua sorella maggiore, mia zia Chiara, è chirurgo maxillo-facciale, specialista nel ricostruire i lineamenti dopo gravi incidenti. È considerata una delle migliori e vengono da tutta Europa a farsi operare da lei.
Camilla, invece, dopo il liceo, ha frequentato un breve corso di arredamento d’interni, uno di cucina e un master di ikebana.
Poi si è sposata con mio padre, il dottor Joseph Cody, detto Joe, medico di base e sufficientemente benestante da accogliere la moglie in una luminosa villetta col giardino.

Ed ecco la signora Cody: sempre a posto, elegante, profumata. Aspetta il marito e lo saluta con un bacio ogni sera. Sa cucinare, fare le torte, la pasta sfoglia. Cose di nicchia, ormai.
Come la potrei definire se non una donna di altri tempi?
Fin dall’inizio, la sua vita matrimoniale è stata improntata così: ordine e tradizione.
La sua maggiore ispirazione erano le riviste degli anni ’50 del ventesimo secolo, da lei ritrovate in una antica cassapanca di una quadrisavola.
Le aveva fatte digitalizzare perché non si corresse il rischio di perdere quei capolavori dove regnavano immagini di madri bellissime e felici, dedite a preparare al bambino paffuto squisite farinate, con una scatola di biscotti Mellin a fare da sfondo.
Il sorriso di quelle donne era sempre radioso, così come perfetti erano i loro sfiziosi vestitini, non di rado abbelliti da colletti improbabili.

Evidentemente il sogno di Camilla era questo: rendere reali quei quadretti antichi di vita familiare. Che poi corrispondessero alla realtà, diceva talvolta mia nonna Lara, sarebbe stato da dimostrare. Aggiungeva poi che la storia delle donne era ben più complessa e, in quegli anni che mia madre prendeva a modello, in molti paesi esistevano ancora leggi tribali che prevedevano il delitto d’onore, in cui la donna era vittima, e perfino il processo penale per adulterio, ovviamente soltanto se infedele era la moglie.
A Camilla queste obiezioni davano fastidio. Lo sapeva lei cosa fare, come vivere, fuori dalla nevrosi carrieristica dell’ingegnera sua madre e delle altre donne della sua famiglia.
Sposare un medico, avere figli, essere sempre bella e profumata come le madri di quelle riviste così affascinanti: questo era il suo piano.
E lei non è mai stata un tipo da ripensamenti. Poche idee chiare, obiettivi circoscritti e precisi.

Anche il destino ci ha messo del suo, facendo nascere due figli, maschio e femmina, secondo i desiderata materni.
Tutto perfetto negli anni seguenti: i bambini erano belli, buoni, bravi. Lui, Sean, eccelleva nel calcio. Jennifer, minore di un anno, naturalmente frequentava la scuola di danza classica. Una ballerinetta fin dalla primissima infanzia.
Casa nostra è piena di foto di questa famiglia meravigliosa: immagini di tutte le dimensioni.
Si comincia col matrimonio dei miei, un gruppo con i nonni e poi tantissime fotografie di Sean e Jennifer.
Due bambini biondi e bellissimi, dai lineamenti fini, sorridono dalle pareti, dagli scaffali della libreria, dalle mensole della cucina.
E poi c’è Jennifer col tutù, piccolissima e tenera, poi, via via sempre più grande e snella, slanciata e flessibile, col corpo inarcato in piroette e volteggi, le scarpette di raso lucenti e morbido tulle per i costumi di scena.

Dicevo: la nostra famiglia è tradizionale, nessuno ha mai divorziato. Ovvero, pare che una trisavola, alla fine del ventesimo secolo, lo abbia fatto. Dopo, stranamente, nonostante la fragilità crescente dei matrimoni, non è più accaduto.
Mia madre, però, non solo è immune alle tentazioni, fedele, graniticamente monogama, ma credo proprio che non abbia conosciuto nessun altro uomo che non sia il marito.
Le immagini di Camilla con i bambini sono talmente armoniose, perfette nelle luci e nelle proporzioni, da sembrare artificiali, create per qualche pubblicità di un tempo lontano.
La nostra abitazione, oltre a essere accogliente, è sempre piena di fiori.
La padrona di casa sa come coltivarli e come esporli, ne conosce il significato, ne studia i colori.
Così, quando qualcuno entra nella villetta che ci ospita, non può non essere sorpreso da tanta accuratezza ed equilibrio, come, del resto, non sfugge ai visitatori il gusto raffinato che sovrintende alla cura dell’ambiente.

È stata sempre così la vita dei miei genitori, fin dal fidanzamento: passo dopo passo, anno dopo anno. Matrimonio, Sean, Jennifer, cura della casa, educazione dei figli. La bambina particolarmente predisposta all’arte e alla danza. Il maschietto bravo in matematica, un campioncino a calcio.
La vita è meravigliosa. Così dicono le fotografie, in particolare una dell’estate 2099, dove Camilla e Joe posano sulla spiaggia insieme ai figli, tutti e quattro atletici e biondi, sorridenti e soddisfatti.
Le cose vanno così, talvolta, nella vita: anni di buona sorte, di benessere e felicità, tutto sembra essere sotto controllo.

Ma poi c’è sempre il cigno nero, l’evento inaspettato.

Stavolta il cigno fu letteralmente tale. Jennifer, quattordicenne, era giunta a livelli molto alti all’interno dell’Accademia di danza classica, così, si esibiva come protagonista nel Lago dei cigni.
Le sue gambe lunghe e con muscoli ben visibili sembravano vincere la forza di gravità, tanto erano armoniosi i movimenti. Le braccia sottili, nel loro vibrare, sembravano davvero ali di cigno.
Nella piccola città dove è sempre vissuta la mia famiglia, non è difficile diventare una celebrità. La provincia è così, se sei molto bella, se tuo padre è un professionista conosciuto, se oltre a questo hai un particolare talento, ebbene, già da bambina puoi essere al centro dell’attenzione. Tutti sanno che la tua perfezione è miracolosa ed ineguagliabile.
Così, in quell’autunno di fine secolo, l’esibizione di Jennifer era quanto mai attesa, partecipata, desiderata da molti.
La sera del 28 ottobre 2099, nel piccolo teatro, quasi una bomboniera, costruito alla fine del 1800 e più volte restaurato, la bionda fanciulla danzava seguita dagli sguardi ammirati di una platea affollata.

Ma poi, improvvisamente, il cigno danzante lasciò il posto al cigno nero.

Fu questione di un attimo: sul palco qualcosa cedette, forse una tavola usurata. Fatto sta che Jennifer perse l’equilibrio, barcollò su una punta. Le scarpette sembrarono prendere vita e lei volò fuori dal palcoscenico.
Tre giorni pieni di angoscia, in rianimazione, con i miei genitori disperati, Sean annichilito. Ma le lesioni erano troppo gravi e all’alba del primo novembre fu dichiarata la morte cerebrale.
Camilla era fuori di sé, insultava chiunque tentasse di farla ragionare, marito compreso e poi prese una decisione: Jennifer non poteva morire. Avrebbe fatto prelevare del tessuto idoneo e, in seguito, avviato la procedura di clonazione, legale solo da pochi decenni.
Sua sorella Chiara l’ha sostenuta in questa follia, l’ha portata dai migliori specialisti. Lei non ha figli ed era attaccatissima a Jennifer, avrebbe dato qualsiasi cosa per vederla di nuovo perfetta e felice come era stata nella sua breve vita.
Le due sorelle, incuranti del fatto che mio padre non fosse d’accordo, hanno fatto davvero di tutto per raggiungere lo scopo.

Così, dopo vari tentativi, Camilla è riuscita a portare nel grembo la copia della figlia morta. Che poi ero io, Marie Claire.
Non ha voluto usare lo stesso nome, perché, appunto, non ero proprio lei, ma il suo clone.
Anche in questo caso, il destino ha collaborato. Sono nata, si dà il caso, nel giorno del secondo anniversario della morte di Jennifer.
In questo, ovviamente, mia madre ha visto un segno: le è sembrato che la sua amata e perduta figlia fosse tornata.
Crescendo, ho saputo di essere un clone. Fisicamente uguale a Jennifer, indistinguibili le nostre foto.
Ma la nostra esistenza, in realtà, si è ben distinta fin dall’inizio.

Se a lei era toccato di crescere in un ambiente di deliziosa serenità, quasi irreale tanto privo di contrasti, io, per contro, sono cresciuta con una madre ansiosa e sostanzialmente disperata, un padre sempre più assente, un fratello troppo grande (aveva diciassette anni quando sono nata) che poi se n’è andato all’università. Anzi, quello con Sean, è stato molto meno di un rapporto tra fratelli. A lui mancava Jennifer, con cui aveva condiviso i primi quindici anni di vita.
La mia somiglianza (o meglio perfetta uguaglianza) con lei lo infastidiva ogni giorno di più.
Man mano che crescevo, Sean sopportava sempre meno la pazzia di mia madre, quella di farmi nascere. Così, i suoi rientri in famiglia sono diventati più rari e, una volta laureato in ingegneria aerospaziale, si è trasferito a Houston, si è sposato e non lo vediamo quasi mai.
Mio padre ha moltiplicato i suoi impegni di lavoro, torna a casa a tarda sera ed è immancabilmente stanco e nervoso. Con me è stato sempre cortese, ma sbrigativo, come se fossi un’ospite. Non mi ha mai rimproverato, ma neppure coccolato. Un estraneo, praticamente.
Talvolta, nelle rare occasioni in cui stiamo insieme più a lungo, colgo nel suo sguardo qualcosa di oscuro, come se non mi riconoscesse. È difficile da spiegare, ma doloroso. Ho visto i padri delle mie amiche giocare e scherzare con loro, sorridere orgogliosi guardandole.
Il dottor Cody, invece, non ha con me un atteggiamento naturale, le poche volte in cui mi rivolge la parola, pone domande neutre, sempre uguali. “Come va a scuola?”, “Ti sei divertita alla festa?”, “Hai fatto gli auguri alla zia per il compleanno?”. Sono frasi standard, senza calore, tanto più che la risposta non gli interessa, è più che evidente, dato che mai è accaduto che da qualcuna di queste domande scaturisse una conversazione.
Siamo state quasi sempre sole, io e Camilla, nella casa pulita e in ordine, con le foto di una passata perfezione.

Lei sorrideva, ma quel sorriso era solo apparente. Quante volte, nei miei anni infantili, ho colto un’ombra cupa nel suo sguardo posato su di me.
Manipolare il destino era stato inutile: io non ero Jennifer e lei rimaneva pur sempre una madre colpita dalla più grande delle disgrazie.
Da piccola mi insegnava la poesia del Carducci, Pianto antico.

Aveva voluto che la imparassi a memoria:

Tu fior della mia pianta
Percossa e inaridita,
Tu de l’inutil vita
Estremo, unico fior
Sei nella terra fredda
Sei nella terra negra
Né il sol più ti rallegra
Né ti risveglia amor.

Fino ai sette anni, l’ho recitata senza rendermi conto del significato.
Poi, un giorno, guardando per l’appunto un melograno, ho capito.
Jennifer era stato il fiore unico ed estremo di mia madre.
Io ero solo un clone, una copia non abbastanza conforme.
Non sempre i cloni riescono bene.

Con grave disappunto di Camilla, non ho mai voluto andare a danza classica, né compiere studi d’arte, come quelli che mia sorella aveva intrapreso. La somiglianza con Jennifer, negli anni, si è un po’ persa.
È vero, abbiamo gli stessi lineamenti, ma la mia espressione non è sognante, i miei gesti meno aggraziati di quelli che ho visto nei tanti filmini girati in ogni occasione nei quattordici anni di vita di mia “sorella”.
Lei, oltre a danzare, dipingeva piuttosto bene, si ispirava a Degas.
C’è un album in cui ha disegnato decine di ballerine in tutù, in salotto sono appesi un paio di suoi quadri e qualche acquarello, sempre con giovani donne sulle punte o alla sbarra.
A me quelle immagini, tanto osannate da mia madre, hanno sempre fatto uno strano effetto.
Cose morte, ecco, come morta era la loro autrice. Io invece, seppur in modo anomalo, sono venuta al mondo e mi sento viva e diversa, Marie Claire, non Jennifer.

Sono iscritta a un istituto tecnico, mi occupo di meccanica, in particolare di auto e motori. Non adatto a una ragazza, in particolare a una carina come me? Chi l’ha detto, non somiglio a Camilla, non sarò mai una casalinga perfetta.
Mia zia Chiara, dopo avermi visto con la tuta da meccanico mentre riparavo il motorino, si è messa a piangere, proprio non è riuscita a trattenersi e da quel giorno anche le sue visite sono diventate più rare.
Probabilmente le manca Jennifer, forse si è pentita di aver sostenuto la sorella nel voler creare un clone.
D’altra parte, lei era la madrina di mia “sorella”, si era sentita una fata, diceva, quando la vedeva crescere realizzando un’ideale di grazia e femminilità, da me neppure lontanamente replicato.

Oggi, comunque, sono qui a casa in piena tranquillità.
I miei genitori, naturalmente insieme alla zia Chiara, sono andati a trovare Jennifer nel piccolo cimitero di montagna dove riposa da diciannove anni. Per molto tempo sono stata costretta a seguirli nel loro triste pellegrinaggio, ma dall’anno scorso mi sono rifiutata: non sopportavo più di vedere quella faccia identica alla mia sul marmo di una tomba. Non era mia sorella, era un fantasma del mio stesso passato, qualcosa di lugubre e ingiusto per una ragazzina come me.
E se i miei familiari sono delusi dalla mia esistenza di clone imperfetto, ebbene, è colpa loro.
Dovrebbero apprezzare il mio impegno nello studio, l’abilità che dimostro nella parte pratica e negli stages. Frequento il quarto anno e davvero sto diventando un tecnico molto abile nella riparazione di tutti i veicoli.
Per esempio, ho imparato bene come si aggiustano, ma anche come si manomettono i freni.

Chissà che una volta o l’altra, prima di una di queste “gite” cimiteriali, non decida di passare dalla teoria alla pratica dei miei studi di meccanica.
O che magari ci sia già passata…

Suonano alla porta.
È la polizia.
“Marie Claire Cody?”.
“Sì”.
“Ci dispiace, abbiamo una brutta notizia…”.

Fulvia Perillo

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