Il terzo cassetto è più in ordine dei primi due. Conserva soltanto lettere e cartoline rigorosamente divise in pacchetti legati con nastri ed elastici. Uno psicanalista – nemmeno troppo sagace – potrebbe facilmente dimostrare che sono segni tangibili della mia ossessione maniacale per la classificazione. Mi stupisco di me stessa e di come tali reliquie cartacee siano state catalogate scrupolosamente anno per anno. Un archivista diplomato non avrebbe potuto fare di meglio. L’occhio mi cade subito su una cartolina che rappresenta una piazza. Leggo sul retro e mi torna in mente il mittente: Marilù. E accanto alla sua firma infantile quella più pretenziosa del suo compagno di viaggio Eugenio, l’apprendista poeta che aveva aggiunto ai saluti una frase non so fino a che punto autoironica: “Prove di Nobel”. Infatti la piazza è quella del Nobel Museum di Stoccolma, con il palazzo settecentesco circondato dagli edifici rossi e gialli di Gamla Stan, la città vecchia. A questo punto, non possono non tornarmi in mente tanti pomeriggi trascorsi in compagnia della mia vicina di casa Maria Luisa, detta Marilù, figlia unica di un facoltoso grossista di pesce che abitava nel villino di fronte a casa nostra. Una ragazza dolcissima che qualche maligno compagno di giochi aveva soprannominato “pesce palla” per via delle sue forme generose. Marilù era quella che si dice un’anima semplice, che per qualche incomprensibile destino si era accompagnata a un tipo completamente diverso da lei. Eugenio, il suo ragazzo, era un giovane intellettuale convinto di essere stato prescelto dalla Musa e come tale si sentiva in diritto di disprezzare palesemente chiunque non manifestasse interesse per i suoi versi. In poche parole, era un tipo decisamente insopportabile. Uno che non si poteva portare non dico in discoteca, ma nemmeno a una festa in casa. Pena l’ostracismo sociale. Marilù, che soffriva parecchio per lo snobismo del suo ragazzo, cercava di giustificarlo asserendo che era troppo sensibile e per questo incompreso dal resto del mondo ma si era rassegnata a lasciarlo a casa nelle occasioni in cui occorreva dimostrare un minimo di socialità. Eugenio aveva da poco festeggiato i ventidue anni quando gli venne un’idea folgorante: decise che era arrivato il momento di compiere il suo viaggio di formazione. Proprio come quei giovani nobili del Settecento che si armavano di bauli e di servitù per intraprendere il Gran tour che li avrebbe avviati alla vita. C’era solo un particolare: Eugenio non era nobile. E oggettivamente nemmeno ricco. Quindi occorreva un finanziatore, che fu ben presto trovato nella persona del futuro suocero, vale a dire il facoltoso pescivendolo all’ingrosso Alvaro Bottaini, titolare della Prodotti ittici Granchiofrost. Con un simile mecenate, meglio noto come Lo squalo, Eugenio pensò bene di non badare a spese e preparò con cura il suo itinerario: in aereo fino a Stoccolma e, a seguire, noleggio di auto e romantico viaggio attraverso Svezia, Finlandia e Norvegia, fino a Capo Nord. Lì avrebbe sicuramente tratto l’ispirazione per la sua opera prima: una raccolta di versi che meditava già da tempo.
Finalmente ho la possibilità di esordire nella Poesia come ho sempre desiderato. In realtà, il mio destino era già segnato alla nascita con un nome che era di per sé un presagio: Eugenio. Lo stesso del mio idolo e maestro Eugenio Montale. Chi mi conosce sa che a lui mi legano non solo una medesima concezione disincantata della vita e l’uso sapiente del linguaggio, ma anche il rifiuto di ogni facile consolazione unito alla consapevolezza della negatività della condizione umana. Quando lessi per la prima volta “ Meriggiare pallido e assorto” ebbi una vera e propria illuminazione. Quei versi li avrei potuti scrivere io. E da quel momento mi dedicai anima e corpo alla ricerca poetica. Dopo aver divorato “Ossi di seppia”, compresi che quella raccolta sublime doveva avere un degno seguito e che ero io l’erede designato per compiere l’alta missione. Convinsi Marilù ad andare in vacanze alle Cinque Terre affinché, nutrendomi della stessa aria che aveva ispirato il Maestro, ne potessi raccogliere l’eredità poetica. Così, grazie al portafoglio del vecchio Squalo, trascorremmo un’estate in totale comunione con l’aspra fisicità del paesaggio ligure. Mentre Marilù mi aspettava annoiata nel suo triste costume over size ingozzandosi di bomboloni alla Nutella, mi immergevo pienamente nella natura arida e assolata, cogliendo misteriosi legami metafisici ed escogitando correlativi oggettivi e ardite metafore. Fu lì, fra “il palpitare lontano di scaglie di mare”e “la muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” che nacque l’ambizioso progetto di “Gusci di cozza”. La notte vegliavo in compagnia delle zanzare, eccitato all’idea che finalmente, dopo gli ossi di seppia (nude e levigate reliquie gettate dal mare sulla spiaggia), la poesia italiana avrebbe conosciuto i gusci di cozza: umili resti di mollusco destinato alla zuppa che, grazie alla mia sublime intuizione, assurgevano a dignitoso emblema della tragica condizione umana. Ho provato a spiegare a Marilù il significato della mia geniale metafora ma devo constatare ancora una volta che la poverina non è assolutamente in grado di cogliere la meraviglia che sgorga dal verso. Né tantomeno di riflettere su alcun messaggio di natura filosofica. A lei basta spalmarsi di crema solare e riempirsi la pancia di tramezzini al tonno e maionese. D’altronde, che cosa ci si può aspettare dalla figlia di un pescivendolo che si emoziona soltanto in presenza del vile denaro? Un denaro che, oltre tutto, olezza di sardine e di calamari. Per sua fortuna, la ragazza ha trovato uno come me, che invece di dissiparle il patrimonio in beni materiali e fugaci, cerca di investirlo in cultura e, al tempo stesso, si offre generosamente di emanciparla dall’atavica ignoranza. Anche se devo dire che il compito risulta assai arduo. La prima volta che le declamai “ Spesso il male di vivere ho incontrato”, osservò schifata che i rivi strozzati, le foglie incartocciate e i cavalli stramazzati le facevano venire l’uggia allo stomaco. Per di più ammise candidamente di conoscere un solo Montale: il paese vicino a Pistoia dove da bambina andava spesso a far visita a una lontana parente di sua nonna. Inutile aggiungere altro. Ma, se voglio dedicarmi alla Poesia senza dover affrontare i prosaici problemi del sostentamento quotidiano, bisogna che non faccia troppo lo schizzinoso. D’altra parte, è vero che“pecunia non olet”. Anche se, in questo caso, un certo olezzo si sente. Eccome se si sente! E non è solo quello dei granchi e delle cernie che lo Squalo smercia ingrassando se stesso e la figlia ma è l’odore disgustoso dell’ignoranza inconsapevole di chi, digiuno di ogni cultura, disprezza coloro che ne fanno una ragione di vita. Comunque, nel mondo materialistico in cui noi poeti siamo costretti – seppure “obtorto collo”- a vivere, bisogna sfruttare realisticamente tutte le opportunità che ci vengono offerte. Per questo ho accettato il cospicuo contributo del mio futuro suocero e ho organizzato il viaggio in terra scandinava, con la speranza di trarre ispirazione dalla natura selvaggia del Grande Nord. Ho convinto Marilù con la promessa che, prima di intraprendere la nostra avventura fra le foreste lapponi e i fiordi norvegesi, potrà fare shopping nel centro di Stoccolma e potrà mangiare quintali di bistecca di renna. Senza fare il calcolo delle calorie. All’inizio, era molto perplessa ma quando le ho promesso che l’avrei portata anche a Rovaniemi a vedere la casa di Babbo Natale, si è definitivamente convinta. Così siamo partiti in aereo per Stoccolma e ora vaghiamo mano nella mano per la città vecchia come due volgari turisti italiani. Ancora un altro giorno di aringhe a colazione e di cartoline per gli amici, di caffè lunghi e di acquisti compulsivi di orrendi souvenir e poi via, verso la foresta finlandese dove la Musa mi suggerirà versi struggenti nel silenzio del verde sconfinato. E ancora via, lungo i tornanti che costeggiano i fiordi, in compagnia del vento che spazza le rocce e agita i pescherecci ancorati fra le casette gialle e rosse che occhieggiano sui porti deserti. Coraggio, Eugenio, solo un altro giorno.
Oggi ho passato una giornata stupenda. E dire che non volevo partire. Avevo una gran paura che Eugenio mi trascinasse per musei e per mostre e che mi stressasse con le sue lezioni incomprensibili. Invece è stato adorabile. Non solo ha aspettato senza sbuffare per più di un’ora fuori dal negozio mentre sceglievo dei pensierini per le amiche ma quando mi sono lasciata incantare da una mezza dozzina di maglioni variopinti in puro stile Babbo Natale e li ho comprati tutti, ha persino ammesso che mi stavano a pennello. Non so se fosse sincero ma almeno non mi ha guardato con l’aria schifata come fa di solito. Infine, all’ora di cena – incredibile ma vero – mi ha lasciato mangiare una dose esagerata di Pittypanna( che è un piatto tipico di carne con patate, cipolle, uovo, cetrioli e barbabietole) senza manifestarmi pubblicamente la sua disapprovazione. Per una ragazza che soffre di disturbi alimentari vi assicuro che è un gran bel regalo. Addirittura, mi è sembrato che, mentre spilluzzicava la sua fettina di pane nero con il burro, mi lanciasse qualche occhiata quasi affettuosa. In fondo, se Eugenio mi ha portato in vacanze con sé, vuol dire che mi vuole bene e che la mia compagnia non lo annoia così tanto … È vero che il babbo ha pagato il biglietto dell’aereo e ci ha dato una discreta somma per gli alberghi e i ristoranti ma questo è un dettaglio insignificante perché Eugenio è uno spirito nobile e disinteressato. Non per niente è un poeta. E lo sanno tutti che i poeti pensano solo a scrivere versi e disprezzano le cose materiali. Checché ne dica qualche amica invidiosa, Eugenio non sta con me per i miei soldi ma perché – come dice sempre lui – il mio cervellino, ingenuo e libero da ogni sottigliezza intellettuale, gli permette di svolgere la sua funzione educativa e di plasmarmi come vuole lui. Oddio, qualche volta è un po’ una “palla al piede”. Specialmente quando pretende che capisca tutti i suoi discorsi e si mettere a recitare ad alta voce le poesie di quel Montale che gli piace tanto. Se siamo in compagnia, io mi vergogno un po’ ma quando siamo soli lo lascio fare. D’altra parte, nessuno è perfetto. Però, se devo essere sincera, quando mi dà della scema in pubblico, ci rimango un po’ male. In fondo, non avrò una gran cultura ma ho il mio bel diploma delle Magistrali e all’esame ho fatto un figurone con la ricerca su Maria Montessori, tanto che anche il Presidente della Commissione mi ha fatto i complimenti. I soliti maligni hanno sparso la voce che sono passata perché il babbo ha rifornito i professori di astici e gamberoni per tutto il tempo dell’esame ma non è vero niente. Io il diploma me lo sono guadagnato, studiando notte e giorno. E andando a ripetizione in sette materie per tutto l’anno. Eugenio invece ha una testa che non finisce più ma, se devo essere sincera,io alla mia ci sono affezionata e non la cambierei con la sua per niente al mondo. In fondo, nella vita si può anche essere ignoranti. La cosa più importante è non disprezzare nessuno e valorizzare quello che si sa fare. Io, per esempio, sono bravissima a preparare i dolci e so divertire i bambini piccoli. Non per niente ho fatto il tirocinio alla scuola materna di Borgo a Buggiano e sia le maestre che i genitori mi hanno fatto un sacco di complimenti. Per non parlare dei bimbi che sono rimasti malissimo quando ho finito la stage.
Insomma, ognuno ha i suoi pregi e i suoi difetti e noi due, tutto sommato, stiamo bene insieme perché – come dice sempre il babbo – ci compensiamo. Lui veramente dice : “Poggio e buca fa pari” per dire che, se la famiglia di Eugenio è squattrinata, la nostra invece ha tanti di quei soldi “da fare il letto ai cavalli”.
Domani all’alba partiamo per Capo Nord. La prima tappa è di 640 km, da Stoccolma a una città che si chiama Umea. Eugenio ha programmato tutto il viaggio in maniera scientifica e ha chiarito che ci si ferma solo per fare la pipì. Spero solo che ogni tanto mi permetta di rifocillarmi perché se mi calano gli zuccheri, mi sento l’uggiolina allo stomaco e qualche volta svengo anche.
Com’è vero che il viaggio è metafora della vita! Via via che ci avviciniamo al circolo polare artico mi sento percorrere da un vago moto febbrile. Il senso della missione che mi attende mi esalta e il mio corpo si fa quasi etereo. Tanto che, rapito da una sorta di panismo, mi sento tutt’uno con la distesa di fiori rosa che si alternano al verde delle conifere. Marilù invece ha sempre fame. Da quando ha scoperto l’aringa marinata, il pane nero e la panna acida, l’auto che abbiamo noleggiato è diventata una vera e propria dispensa ambulante. Ieri sera ha saccheggiato preventivamente un paio di supermercati, nel timore che, sperduti nella foresta svedese, potessimo rimanere a corto di viveri. Invece lungo la strada ci sono tante stazioni di sosta dove vendono fette di salmone e quintali di burro salato. Questa scoperta l’ha rassicurata. Così, mentre ci inoltravamo nella terra dei Sami, Marilù, finalmente sazia e appagata, si è addormentata di botto, rompendo il silenzio del Grande Nord con il suo fastidioso russare. Come fa uno come me a condividere l’ esistenza con un essere così insulso e prosaico?Me lo chiedo spesso ma alla fine arrivo alla conclusione che tutto ha un senso. Si vede che il Destino ha voluto che fossi io a fornire allo Squalo l’unica occasione di compiere un gesto meritorio per l’umanità: finanziare un’opera di alta poesia. Purtroppo in questi tempi oscuri i mecenati non hanno più l’austera grandezza di un Cangrande della Scala ma la volgarità sanguigna di un Alvaro Bottaini. Che ci vogliamo fare? Urge rassegnarsi.
Stasera, appena arrivati a Umea, mi sono sdraiato su una panchina di pietra di fronte al mare e ho osservato a lungo l’incresparsi leggero delle acque nel Golfo di Botnia. Ed è su quella riva che la mente si è persa alla ricerca di inusitate metafore e di simboli arcani. Se non fosse stato per le risate di alcune bionde vichinghe statuarie e scollacciate nonché per lo scricchiolio delle mascelle di Marilù, intenta a divorare dei dolci alla cannella, avrei sicuramente dato libero sfogo alla mia ispirazione. Ma nonostante le distrazioni, sono comunque riuscito a comporre di getto qualche verso libero che ho subito trascritto sul mio taccuino da viaggio. Tenendo conto che non sono Montale e che invece di un’eterea Arletta o di una salvifica Clizia avevo accanto una insignificante Marilù, direi che i versi che ho scritto non sono affatto da cestinare: “Gorgoglia il gambero rosa nell’ oscura padella/ alla vana ricerca di un varco./Ma l’atro sugo lo risucchia e uno spicchio d’aglio inconsapevole lo ricaccia nell’inesorabile oblio.” Come inizio, direi niente male.
Uffa, anche oggi più di 300 Km! Ma quanto è lontana questa cima del mondo? Eugenio dice che il bello del viaggio sta proprio nella difficoltà di raggiungere la meta. Sarà! Ma, secondo me, era meglio andare a Fiumetto o a S.Vincenzo. E’ vero che lì a mezzanotte non c’è più il sole ma si faceva prima ad arrivarci e ci si stancava meno. E poi come faccio a non pisolare mentre lui guida e recita tutti quei versi incomprensibili? Per tenermi sveglia, mi basterebbe che ogni tanto mi facesse sentire la cassetta con le canzoni dell’ultimo Festival di Castrocaro. E invece non fa altro che declamare le poesie di quel suo Montale. A rischio che ci capiti un accidente, come per poco non succedeva a due passi dal confine con la Finlandia. Quando ha visto il cartello stradale, Eugenio si è esaltato e si è messo a urlare fuori dal finestrino: “ Il cammino finisce a queste prode/ che rode la marea col moto alterno. / Il tuo cuore vicino che non m’ode/ salpa già forse per l’eterno.”A un tratto, una renna gigantesca ci ha attraversato la strada e c’è mancato poco che non si salpasse davvero tutti e due per l’eterno. Dalla paura mi è venuta una gran fame e ho fatto fuori a morsi un intero salamino di alce. Però bisogna dire che, per farsi perdonare, appena arrivati a Rovanieni, Eugenio mi ha portato in un immenso negozio di souvenir e mi ha fatto comprare – senza battere ciglio- un’ intera collezione di Babbi Natale assai pacchiani. E, cosa ancora più incredibile, sia quando mi sono fatta fotografare con il costume da renna che quando ho spedito la letterina a Babbo Natale, non ha fatto nessuna risatina sprezzante. Credo che – alla faccia delle amiche invidiose – questa sia la prova che Eugenio mi vuole bene e che non sta con me solo perché sono la figlia del titolare della Granchiofrost.
Foreste e ancora foreste. E nugoli di zanzare agguerrite che volteggiano nell’aria, ringalluzzite dalla luce che non lascia mai il posto alle tenebre. Solo in questo periodo perché per il resto dell’anno qui è sempre buio o quasi. Come faranno questi scandinavi a vivere senza luce e al freddo per gran parte dell’anno? Ah, la luce, come la canta il Maestro: “Portami tu la pianta che conduce/ dove sorgono bionde trasparenze/e vapora la vita quale essenza;/portami il girasole impazzito di luce.”
Ad essere sinceri stanotte non ho chiuso occhio. Non tanto perché la Musa mi teneva sveglio, quanto per via della tenda trasparente che faceva filtrare la luce. Io sono abituato a dormire nel buio più completo. E anche il fatto che Marilù russi non facilita certo il riposo. L’albergo dove ci siamo fermati stanotte era confortevole ma intorno c’erano solo alberi, alberi e ancora alberi. E dopo le sette da queste parti non si trova un ristorante aperto per cenare. Comunque con Marilù non si rischia mai di morire di fame: gallette con carpaccio di balena, formaggio spalmabile, yogurt ai frutti di bosco e certe paste giganti ripiene di marmellata e di crema.
Ieri sera, dopo un interminabile viaggio, siamo finalmente arrivati a Capo Nord. Ormai disperavo di arrivare alla meta e già mi rassegnavo a passare il resto dei miei giorni in uno sperduto villaggio di pescatori norvegesi, chiusa in una casetta di legno con le finestrelle stile Lego e uno stuolo di orsi polari che bussavano alla porta. E – pensiero ancora più sconfortante – con le urla dei gabbiani che intrecciavano i loro lugubri voli nel cielo del fiordo, accompagnate dalla voce di Eugenio che recitava i versi del suo Maestro. Invece questa volta il mio fidanzato mi ha portata sana e salva fino a Honnisvag, dove ci siamo sistemati in un grazioso bungalow all’interno di un campeggio attrezzato. A quel punto avrei preferito rifocillarmi un po’ e riposarmi dalle fatiche del viaggio ma lui è ha deciso che bisognava andare subito a vedere la punta più estrema del mondo. Non c’è stato verso di convincerlo. Così mi sono dovuta rassegnare a risalire in auto e a percorrere una strada in salita piena di tornanti, proprio nel momento in cui il cielo rossastro si lasciava avvolgere da una leggera nebbiolina un tantino inquietante. Arrivati in cima, dopo aver pagato il biglietto, abbiamo parcheggiato l’auto in un piazzale pieno di auto e di moto e ci siamo avviati, confusi nella folla di turisti armati di macchine fotografiche e giacconi impermeabili. Bisogna ammettere che lassù, fra le rocce che si buttano a strapiombo nel Mar glaciale artico, lo scenario è da sballo. Un posto così non l’avevo mai né visto, né immaginato. Sembrava di essere in uno di quei documentari che ci faceva vedere ogni tanto la maestra alle scuole elementari. E dire che era quasi mezzanotte e, anche se la nebbia stava calando lentamente, c’era ancora il sole. Ma quello che mi è piaciuto di più è stato il monumento a forma di globo. Bisognava vederli tutti quei turisti che si facevano fotografare con il braccio alzato come se fossero loro a reggerlo. Anche noi ci siamo fatti un bell’autoscatto, così, quando torniamo a casa, lo incornicio per dimostrare alle mie amiche che è vero che siamo arrivati fin quassù. Dopo che Eugenio è rimasto seduto per più di un’ora di fronte al mare a scrivere i versi di quel suo famoso poema che parla del cacciucco (o di qualcosa del genere), ha finalmente avuto pietà di me e ha deciso che mi ero meritata una lauta cena. Devo dire che questa volta è stato proprio carino, anche se mi ha impedito di saccheggiare il megastore dei souvenir. Ci siamo seduti a un tavolo del ristorante e abbiamo ordinato un piatto di merluzzo artico affogato nelle patate che mi ha rimesso al mondo. Ad essere sinceri, io avrei voluto assaggiare anche una porzione di salmone affumicato e, per finire, qualche ciambellina al cardamono con la crema di lamponi gialli ma Eugenio ha storto il naso perché costavano troppo. A quel punto sono stata bischera perché non ho avuto cuore di fargli notare che potevamo permetterci non solo il salmone e i dolci ma anche la birra, dal momento che pagava tutto il babbo. O, come lo chiama affettuosamente lui, lo Squalo. Comunque, per non rovinare la serata con le solite polemiche, ho lasciato perdere e sono rimasta leggera. Certo, se avessi immaginato che mi avrebbe trascinato per altre due ore a visitare mostre e a vedere film all’interno del grande edificio, mentre fuori il paesaggio era completamente avvolto nella nebbia e una pioggerellina fitta fitta bagnava i cappucci dei turisti, avrei bevuto almeno un bel caffè lungo con un goccino di acquavite!
Davanti all’immensità dell’Oceano i versi mi scaturivano dalla penna come per magia. Il mio taccuino da viaggio si animava improvvisamente di un’ infinità di creature marine che diventavano l’emblema di una condizione esistenziale: il granchio era il simbolo dell’attaccamento alla vita, la balena l’ eterna metafora dell’ignoto, la sogliola la silenziosa custode di indicibili segreti, il calamaro … Beh, qui sono ancora incerto fra un paio di correlativi oggettivi che dovrò precisare meglio nei prossimi versi. L’importante è che “Gusci di cozza” abbia finalmente preso forma e sostanza. Ho già scritto la prima parte della raccolta dalla quale emergono già i temi classici del viaggio, del tempo, del ricordo e … dell’ appetito. Sì, quest’ultimo motivo mi sono sentito in dovere di aggiungerlo in omaggio alla povera Marilù. Visto che devo in qualche modo ringraziare il mio generoso sponsor (ovvero lo Squalo), ho pensato di dedicare l’ultima sezione alla di lui figlia. Non lo faccio per ruffianeria ma per seguire una consuetudine tanto antica quanto nobile. Infatti la mia poesia non disdegna gli accenti encomiastici. Del resto, anche Virgilio, Ariosto, Tasso e molti altri colleghi erano soliti ringraziare garbatamente i loro protettori. Senza che la loro Poesia ne uscisse sminuita. D’altronde chi potrebbe tacciare di ruffiano uno che scrive versi così sinceri? “Cala la rete in mezzo ai flutti/ lenta risale nella luce/ Tremano i totani nel fondo/ un ricordo emerge in mezzo ai granchi./ Accosto le labbra evanescenti / un vago sapore di fritto mi confonde i sensi.” Se questa non è poesia …
Devo ammettere che ha ragione Eugenio quando dice che il viaggio è come la vita. Lui usa uno di quei paroloni difficili ma il senso l’ho capito benissimo: si parte che siamo immaturi e inesperti e si arriva cresciuti dentro e con la consapevolezza di non essere più quelli di prima. Dopo aver visto posti lontani, l’orizzonte si allarga e ci si sente più piccini ma anche più partecipi alla vita degli altri. Anche degli sconosciuti. Insomma, anche se a filosofia non ho mai preso più di quattro e mezzo, non sono così stupida come sembro e certe cose le intuisco. Per esempio, mi sono commossa fino alle lacrime quando a Hammerfest ho visto un gruppo di bimbi mezzi nudi che sguazzavano tutti contenti nell’acqua gelida, approfittando degli unici istanti di sole in un anno. O quando mi sono fermata a parlare a gesti con le vecchiette Sami che vendevano ai turisti i loro poveri sassi dipinti e le sciarpe colorate fatte durante gli interminabili inverni senza luce. E che dire del marinaio con la barba grigia che ha incrociato per un attimo il mio sguardo in un pub di Tromso ? E’ vero che ero impegnata con la mia frittata ripiena di pancetta e marmellata, ma non mi è affatto sfuggito il suo sguardo triste mentre se ne stava appollaiato su uno sgabello con il suo bicchierone di birra in mano. E come non provare tenerezza di fronte alla grazia con la quale la sirenetta bionda che serviva ai tavoli si muoveva a passo di danza porgendo i boccali stracolmi ai clienti? Ho capito che in questo viaggio più che le acque cristalline dei fiordi mi hanno emozionano i visi delle persone che ho incontrato, i loro gesti, la loro contentezza o le loro pene nascoste. In poche parole, gli squarci di vita che ho intuito in ciascuno di loro. Eugenio dice che qui nell’inverno si fanno tutti di Prozac per sopportare il clima rigido e la solitudine infinita. Può darsi che sia vero ma anche in Italia si può essere soli pur vivendo in mezzo a una folla di gente. E posso aggiungere che i depressi esistono anche da noi. Io lo so perché, prima di cadere accidentalmente dalla finestra, anche la mia mamma si era ammalata di depressione. Io non me lo posso ricordare perché ero piccina ma il babbo dice sempre che non aveva motivo di star male perché aveva un sacco di amiche. Per di più, pare che a lei piacesse più il freddo del caldo. Accidenti, a forza di stare con un Poeta, finisce che divento un po’ artista anch’io!
Finalmente ho raggiunto la mia meta: le isole Lofoten, dove porterò a compimento i miei “Gusci di cozze”. Appena arrivato,ho subito compreso che queste montagne a strapiombo sul mare sono l’ approdo naturale che cercavo da una vita. In questo arcipelago favoloso il tempo si è fermato nei villaggi colorati che si specchiano nelle acque dei porti. Qui il vento diffonde ovunque l’odore intenso degli stoccafissi appesi ai tralicci di legno. Ed è stato proprio qui, nel villaggio di A, dove si trova il Museo dello stoccafisso, che ho avuto la folgorazione finale: il pesce essiccato e crocifisso a quelli che sembrano antichi strumenti di tortura è un monito per l’umanità e al tempo stesso un simbolo tangibile dell’aridità dell’esistenza. In buona sostanza, dopo tanto pellegrinare, ho trovato finalmente il correlativo oggettivo che cercavo. Quello più semanticamente pregnante in assoluto. Sono sicuro che, se Montale fosse qui, mi darebbe una pacca d’ammirazione sulle spalle. Ora devo soltanto trovare il modo di rimanere in questo posto il tempo necessario per portare a termine la mia impresa. Senza quella palla al piede di Marilù. Per fortuna, ha fatto amicizia con una famiglia tedesca in vacanza e si diletta a fare tutto il giorno da baby sitter a una banda di bambini pestiferi. Contenta lei … Così mi lascia in pace e io posso dedicarmi anima e corpo alla mia opera.
Chi l’avrebbe detto che quel viaggio sarebbe stato tanto importante per la mia vicina di casa e per il suo geniale fidanzato? Eugenio e Marilù si sposarono l’anno successivo, con tanto di banchetto nuziale nell’albergo più elegante di Viareggio. Il tutto finanziato dal generoso Bottaini che era finalmente riuscito ad accasare la figlia, nonostante quel genero non lo convincesse fino in fondo. Invece, dovette ricredersi perché quello che lui chiamava affettuosamente il “poetastro mezzasega” divenne in breve tempo un abilissimo imprenditore nel settore ittico. Dopo aver aperto una succursale della Granchiofrost niente meno che nelle lontane isole Lofoten, avviò un fiorente commercio di stoccafissi e in pochi anni si assicurò cospicue fette del mercato internazionale. Peccato che, dopo un paio d’anni, il matrimonio con Marilù finisse in maniera poco amichevole. Ma si sa che, quando le aspirazioni sono troppo diverse, la convivenza risulta difficile. In effetti, come avrebbe potuto una ragazza sensibile e generosa come Marilù rassegnarsi a vivere accanto a un uomo convertito al bieco profitto come Eugenio? Le ultime notizie che ebbi di lei parlavano di una doppia e alquanto drastica scelta di vita: si era convertita alla dieta vegana ed era partita con una Onlus per il Ruanda dove si occupava dei bambini abbandonati. In quanto a Eugenio, pare che il successo negli affari avesse offuscato definitivamente ogni velleità poetica. Anche se aveva battezzato il suo lussuoso yacht con un nome un po’ strano: “Guscio di cozza”.
Laura Vignali, tratto dal libro Sette storie nel cassetto