Nella seconda metà degli anni ’20, la signora Anna, da poco trasferita a Grosseto dall’amato paese natio, cercava di ambientarsi e di stringere rapporti, se non di amicizia, almeno di affabile conoscenza, che le permettessero di non sentire troppo la mancanza dei genitori e dei fratelli, rimasti a Campagnatico.
Lei era riservata, ma cordiale e scambiava volentieri quattro chiacchiere con le vicine. Anche la signora Rosa giunse a Grosseto nello stesso periodo, provenendo, però, a differenza di Anna, nientemeno che dalla capitale.
Suo marito, il ragionier Gilberto Mandipietra aveva un prestigioso impiego in un ufficio pubblico. Questo differenziava la famiglia dalle altre del circondario, perlopiù operai, piccoli impiegati, titolari di minuscole botteghe. Anche la signora Mandipietra aveva studiato. Nella sua città natale, Roma, aveva frequentato una scuola per signorine dove, oltre a cultura generale ed economia domestica, l’avevano addestrata a camminare eretta col trucco del libro sulla testa, il che le conferiva un’andatura in certo qual modo maestosa.
Il suo metro e sessanta sembrava protendersi verso l’alto, coadiuvato in ciò da un mento piuttosto importante e tendente al prognatismo che le conferiva una qual sorta di autorevolezza matronale.
Donna Rosa, aveva generato due fiori (queste erano le sue parole) di sesso femminile. Partendo dal proprio nome e da quello di sua madre, Margherita, aveva pensato bene di continuare la serie floreale con Gigliola alla quale, cinque anni dopo, si era aggiunta la dolce Iris.
Anche Anna aveva due figlie, Eufemia e Maria, leggermente più giovani delle fiorite sorelle di cui sopra.
Come madri di due femmine, secondo la signora Rosa, lei e Anna avrebbero dovuto avere molti argomenti in comune, così avevano stretto una certa amicizia. Andavano alla recita del rosario in duomo e qualche volta prendevano un caffè insieme nel dopopranzo. Ora bisogna dire che la loro percezione del mondo non coincideva affatto, ma Anna era educata e gentile per cui lasciava parlare la sua amica (tra l’altro sicuramente più istruita di lei) senza contraddirla. Per esempio, era rimasta piuttosto perplessa, quando, durante uno dei loro caffè, Rosa le aveva esposto quale era stato il suo maggior cruccio alla nascita della seconda femmina.
“Vede, signora Anna (perché al tempo il tu era riservato davvero a pochi e poi c’era un certo dislivello sociale…), quando è nata la mia Iris, oltre alla delusione di mio marito che voleva un maschio, mi sono chiesta come avremmo fatto se una delle due fosse stata molto più bella dell’altra. Le gelosie, più corteggiatori per la più dotata… Insomma, non è facile per due sorelle il confronto nel campo della bellezza. E lei, Anna, mi dica, come l’ha presa?”.
“Cosa, mi scusi?”.
“La nascita della sua secondogenita”.
“Ah… Bene, sì. Mio marito ha detto: un’altra pisciona. E lì si è chiuso il discorso”.
“Ma la questione dell’estetica?”.
Anna si era stretta nelle spalle. Non si era mai posta il problema. “Comunque – continuava l’altra – la questione si è risolta da sola, le mie figlie sono entrambe bellissime, due fiori come i loro nomi”.
“Eh sì” diceva la signora Anna, anche se dentro di sé le veniva un po’ da ridere.
La signora Rosa andò in brodo di giuggiole quando la figlia maggiore si fidanzò con un ufficiale dell’esercito. Cominciò a parlare della ragazza più di quanto già facesse. Per rendere più raffinato il parlare, pronunciava il nome della giovane in un modo strano, stringendo la o, tanto che suonava più o meno Gigli-u-ola ed era rimasta storica quella domenica mattina in cui, nell’affollato Bar Martinelli, Rosa aveva invitato la figlia e il fidanzato ad avvicinarsi al banco dicendo: “Su, venite. Vieni, Gigli-u-ola, ci sono le paste c-ualde c-ualde“.
L’enciclopedia della donna, testo fondamentale per la signora Rosa, suggeriva di non prolungare il fidanzamento per più di un anno. “Perché, vede, signora Anna, non si deve creare troppa intimità prima del matrimonio, ne va del buon nome della ragazza e poi, che ragazza la mia Gigliola, bella, di buona famiglia, diplomata. Per carità, il Capitano è un ottimo giovane, ma, come si suol dire, coglie un fiore, eh!”.
Anna annuiva, sempre molto ammirata della sicurezza (e sicumera) della sua amica. Tutte queste teorie in paese non le aveva mai sentite, lei era stata fidanzata per ben sette anni, però, senz’altro, Rosa ne sapeva di più. Roma era decisamente più grande di Campagnatico e anche di Grosseto e, senza dubbio, in una grande città vi erano più occasioni per capire quali fossero le cose giuste da fare.
Tra preparativi e chiacchiere, l’anno trascorse velocemente e il 28 ottobre 1931, Gigliola, appena ventenne e il capitano Anselmo, di dieci anni più grande, si sposarono. La data non era scelta a caso. “Vede, signora Anna – diceva Rosa – lo zio di Anselmo è un pezzo grosso, vicino a LUI, per intendersi. E ci teneva tanto che il matrimonio si celebrasse nell’anniversario della marcia su Roma”.
“Eh – rispondeva l’amica – capisco”.
Per sottolineare la fedeltà al regime, nelle partecipazioni, accanto alla data delle nozze, era stato aggiunto anche l’anno dell’era fascista, in numeri romani, s’intende.
“Mio genero, mi creda – commentava la madre felice – è una gran persona, destinato a una brillantissima carriera. Certo, mia figlia, anche se è diplomata, non insegnerà, deve essere al suo fianco, il focolare, il calore, la cura. Veramente, signora Anna, con questo matrimonio ho davvero raggiunto l’apice della gioia e della soddisfazione”.
Molti anni dopo, la signora Anna, raccontando la storia alla nipote, sottolineava la questione dell’apice. “Perché vedi, tesoro, raggiungere certe altezze a volte è pericoloso, poi si scende…”.
Trascorsero i mesi e anche qualche anno. Le settimane scorrevano tra le quotidiane incombenze, qualche caffè, la funzione in duomo.
La signora Rosa, man mano che il tempo passava, pur entusiasta del genero, cominciava a nutrire qualche preoccupazione per l’assenza di un erede. E il nervosismo serpeggiava. La giovane sposa era spesso indisposta, usciva poco di casa e il suo pallore, un tempo lievemente rosato, cominciava a diventare diafano. Lo zio gerarca, da Roma, scriveva lettere in cui, oltre all’elogio dell’era gloriosa in cui avevano la fortuna di vivere, chiedeva con insistenza quando finalmente un piccolo futuro Balilla avrebbe allietato la famiglia.
Ma nulla accadeva e l’amorosa genitrice, fiorita madre di cotanti fiori, non si capacitava di come la giovane sposa non gemmasse.
Intanto anche Iris era cresciuta e si era diplomata. Bisogna dire che, col passare degli anni, aveva acquisito una grazia particolare, un misto di riservatezza e di allegria che trasparivano di volta in volta dai grandi occhi nocciola. Di statura media, ma di proporzioni decisamente gradevoli, Iris non passava inosservata anche per l’incedere elegante, più naturale di quello della madre e più spontaneo di quello della sorella. Quest’ultima, invece, sebbene non ancora venticinquenne, aveva assunto un’aria mesta, gli occhi cangianti dal grigio al celeste, un tempo brillanti e dolcissimi, ora ricordavano più un laghetto solitario che un cielo primaverile.
Rosa non si dava pace, pregava quotidianamente la Madonna delle Grazie, in duomo, perché accordasse quell’unico grande e legittimo desiderio che avrebbe garantito la continuità della famiglia e restituito il sorriso alla povera Gigliola.
Un ginecologo romano, un vero luminare, non aveva trovato niente che non andasse nella ragazza, ma aveva diagnosticato una melanconia di fondo che poteva essere causa della inspiegabile sterilità.La madre della sposa era distrutta.
“Signora Anna, la prego, deve farmi un grande favore”.
“Se posso” l’altra, sempre gentile.
“Lei è l’unica che conosce questo tormento, lei mi può capire, avendo due figlie. Ora è vero che Maria è ancora troppo giovane ed Eufemia è una che pensa solo allo studio e al lavoro, ma un giorno, vedrà, anche loro si sposeranno. E allora…”.
“Sì, va bene, forse. Ma poi, se restano signorine, a me va bene lo stesso. Comunque, mi dica”.
“Mi deve accompagnare a Roma, al santuario del Divino Amore. Non si è mai sentito che una grazia chiesta in quel luogo non sia stata esaudita”.
Anna era preoccupata. Andare a Roma non era poi così semplice per lei. “Signora Rosa, io credo che la Madonna ascolti le preghiere dappertutto, se prega a Grosseto, vale uguale”.
“Ma no, che dice, signora Anna, il santuario del Divino Amore è pieno di ex voto. E quanti fiocchi rosa e azzurri… Non può immaginare. Certo, per noi ci vorrebbe azzurro, lo zio di Anselmo ci tiene tanto, otto milioni di baionette, dice, e le baionette fino a prova contraria le portano gli uomini…”.
“Signora Rosa, lasciamo stare le baionette. Anche una bimba sana andrebbe benissimo. Comunque io l’accompagno al Divino Amore, se proprio pensa che serva”.
Così le due donne, all’alba di un giorno di settembre del 1936, presero il treno per Roma e poi vari mezzi urbani per arrivare al Divino Amore. Uscendo dal santuario, la signora Rosa disse che aveva sentito qualcosa nel petto. “Mica si sentirà male, ora?”
“Ma no, che dice, Anna, è una grande emozione, la certezza che la mia preghiera è stata accolta. Presto, sicuramente, diventerò nonna”.
Il mese di ottobre quell’anno era giunto carico di aspettative: chi, come il capitano Anselmo e il suo potente zio, esultava per l’impero; chi, come Eufemia, esultava per aver trovato lavoro come insegnante; chi, come la signora Rosa, sperava di esultare presto per la notizia di una gravidanza.
Ma le cose, si sa, non sempre prendono la piega attesa. Una mattina in cui, tanto per cambiare, Anna e Rosa erano in duomo per la funzione, le loro preghiere furono interrotte da una suora che gestiva l’asilo infantile dove la giovane Iris lavorava come maestra giardiniera.
“Signora Rosa, sua figlia si è sentita male”. La signora Mandipietra, allarmatissima, seguì la religiosa nel piccolo asilo dove Iris, sdraiata su un materassino e pallidissima, sembrava Biancaneve circondata dai nani, dato che i piccoli allievi le si erano fatti intorno, chi piangendo, chi chiamando a gran voce “Signorina Iris!”, chi, come una dolce bambina bionda, carezzando la mano della giovane maestra.
“Iris, tesoro di mamma, ma che succede? Fiorellino mio, che scherzi fai?”.
La ragazza si era un po’ ripresa, ma non sorrideva, cosa strana per lei. Pare che, prima di svenire, avesse anche vomitato. Anna ebbe subito un dubbio che le passò veloce nella mente per essere immediatamente scacciato. No, no, non poteva essere… Erano cose che succedevano a ragazze di campagna, non a personcine raffinate e floreali…
Per una decina di giorni, la signora Rosa sparì dalla circolazione e così pure Iris. Pare fossero a Roma dai parenti, almeno così diceva la portinaia.
Poi, una mattina, la signora Anna sentì suonare il campanello ed era la sua amica, molto meno arzilla del solito, per la prima volta con le spalle curve.
“Rosa, che succede, come sta Iris? Niente di grave, spero”.
La signora Mandipietra scoppiò a piangere e, raccomandando la riservatezza, rivelò tra le lacrime che Iris era incinta e, oltretutto, non voleva dire a nessun costo chi fosse il padre.
Anna era davvero una persona affidabile e non parlò con nessuno della spiacevole situazione in cui si era venuta a trovare la famiglia dei vicini: una figlia sposata che non rimaneva incinta, una figlia signorina, neppure fidanzata, ma gravida. Davvero un bel pasticcio.
Solo Arrigo, il marito di Anna, si accorse del turbamento della moglie, solitamente allegra e invece, in quell’autunno, improvvisamente pensosa. “Nannina, ma che ti succede, c’è qualche problema con le bimbe?”.
“No, no, sono anche troppo brave. Il fatto è…”.
E così raccontò della gravidanza di Iris. Lui, persona amabile e molto pratica, dopo un attimo di sbigottimento, commentò: “Secondo me, avete pregato male”.
“Ma che dici, Arrigo?”.
“Sì, tutti questi rosari e poi, addirittura il Divino Amore. La Madonna ha capito male e ha fatto la grazia alla figlia sbagliata”.
Accennò un sorrisetto ironico, ma la moglie lo fulminò con lo sguardo. “C’è poco da ridere. Pensa se fosse capitato alle nostre figlie”.
Iris scomparve dalla circolazione, era rimasta a Roma, si diceva. La signora Rosa era distrutta e anche Gigliola non usciva più di casa. Il ragionier Mandipietra, già poco cordiale di natura, era ammutolito completamente, fino a che, il giorno di Natale, fu colpito da un infarto e passò rapidamente a miglior vita, a soli cinquantatré anni.
La signora Rosa, dopo poco, si trasferì a Roma dalla madre e anche Gigliola e il marito scomparvero. Per molti anni non si seppe più niente di loro fino a che…
Epilogo
Trascorsero molti anni. Non c’erano social e anche il telefono non era poi così diffuso.
Spesso Anna si chiedeva che fine avessero fatto Rosa e le sue figlie, ma se ne erano perse del tutto le tracce. Arrigo, poi, dopo un po’, disse che questa storia gli era venuta a noia, non era sua abitudine farsi gli affari altrui. Era rimasta famosa una sua frase quando si udivano liti furibonde di una coppia al piano sottostante. “Potrete andare a scuriosare – aveva detto calmo, ma fermo – quando il sangue salirà per le scale”.
Dunque, tenendo fermo il principio di cui sopra, non c’era stato alcun tentativo di riprendere i contatti con ciò che restava della famiglia Mandipietra e delle sue un po’ sfiorite componenti.
Poi il tempo passò. Accaddero tante cose di portata mondiale (la guerra, la caduta del fascismo, l’avvento della repubblica) e altre di carattere familiare, quali la malattia di Arrigo, la laurea di Eufemia e il suo matrimonio. E, infine, il matrimonio di Maria e la nascita della sua bambina, amatissima nipote di Anna.
Maria, però, appassionata di storie e curiosa della natura umana, ogni tanto ricordava Iris e Gigliola e la loro madre così immanente e ipertrofica. E poi c’era il punto interrogativo della inattesa gravidanza… Chissà che fine aveva fatto quel bambino di padre ignoto.
L’unica a cui la questione non interessava (non era stata amica delle ragazze floreali e non tollerava le chiacchiere di Rosa) era Eufemia.
E invece, fu proprio lei, per un capriccio del destino, a conoscere per prima il prosieguo della storia.
Nell’estate del 1956 (erano passati vent’anni!), in qualità di insegnante di francese e anche un po’ di istitutrice, accompagnò un piccolo gruppo di ragazze grossetane in Francia.
Un caldo pomeriggio d’agosto, lei e le sue allieve erano sedute in un caffè nel centro di Parigi. Nel tavolo accanto al loro, sedevano due uomini e tre donne, vestiti di scuro e piuttosto stravaganti.
Eufemia coglieva alcuni frammenti dei loro discorsi e aveva capito che si trattava di artisti. Stranamente il volto di una delle donne, molto bella anche se non più giovanissima, le sembrava familiare, ma non era possibile. Inoltre, gli amici la chiamavano Jeanne e lei non aveva mai conosciuto nessuno con quel nome.
A un certo punto, però, Jeanne si alzò in piedi e le si avvicinò. La guardò strizzando leggermente gli occhi e poi esclamò in italiano: “Ma tu sei Eufemia!”.
L’altra era esterrefatta. Improvvisamente quella voce e gli occhi grigio azzurri, il naso piccolo e il trasparente pallore del volto le risultarono familiari, l’immagine di una giovanissima sposa di un quarto di secolo prima le si materializzò davanti.
“Gigliola!”.
Era proprio lei. Ma cosa faceva a Parigi, dove non sembrava di passaggio?
Jeanne-Gigliola iniziò a parlare. I suoi anni di matrimonio erano stati un inferno fin dal principio. Anselmo era freddo e infedele, affettuoso solo alla presenza dei suoceri (“soprattutto di quell’invasata di mia madre” precisava). Nell’ultimo anno, poi, era ancora peggiorato, non la toccava neppure e lei aveva cominciato a sospettare che avesse una relazione vera e propria. Ma parlare era impossibile. Lui urlava, la accusava di essere stupida e sterile, inutile insomma. Il giorno di Natale del 1936, poi, le cose erano andate in modo un po’ diverso dal racconto ufficiale. Lei e il marito, praticamente due estranei, si erano recati a pranzo dai genitori, sebbene nessuno avesse voglia di festeggiare. Stavano terminando di pranzare quando avevano sentito suonare il campanello e, sulla porta, era apparsa Iris, pallida, scarmigliata, con una lieve prominenza del ventre ben visibile.
“Eccomi. Sono tornata. Buon Natale. E sono tornata per dirvi la verità”. Un attimo di speranza attraversò gli occhi di Rosa, forse c’era un possibile marito per tamponare quella vergogna. “Anzi, la verità ve la deve dire Anselmo, perché il padre è lui”.
Gigliola non era rimasta poi così sorpresa. Quella competizione che fin dall’infanzia animava la sorella, aveva così raggiunto il suo compimento.
Il ragionier Mandipietra aveva cercato di parlare, ma le parole si erano fermate in gola, mentre appoggiava le mani al petto e si accasciava sul tavolo ormai esanime.
Eufemia visse in un attimo tutta la drammaticità di quella scena.
“Poi – continuò Gigliola – siamo tornati tutti a Roma. Mia madre e Iris nella casa dei nonni, Anselmo da suo zio ed io non ho voluto abitare con nessuno di loro, sono andata ad insegnare in un collegio femminile e ho vissuto lì per qualche anno.
Per questo Anselmo mi ha accusato di abbandono del tetto coniugale e ha chiesto l’annullamento del matrimonio alla Sacra Rota. Non mi sono opposta. In effetti su quali presupposti era nata la nostra unione? I sogni di mia madre, da una parte, e un uomo prepotente dall’altra che voleva una moglie bambina e fattrice. Ora, però, bisognava sistemare le cose, secondo lui e anche secondo le mie deliziose congiunte. Il bambino era in arrivo e solo questo contava. L’annullamento, grazie ai buoni uffici dei parenti di Anselmo, è arrivato in tempi record, tanto che il matrimonio di mia sorella col mio simpatico consorte è stato celebrato poco prima della nascita del piccolo Benito”. Eufemia non potè trattenere una risatina. “Beh, come volevi che lo chiamassero?”.
“Però – continuò lei – dopo la separazione, soprattutto quella da Rosa, ho finalmente potuto vivere. Ho insegnato, ho studiato arte e disegno e, durante la guerra, ho conosciuto un pittore francese con cui mi sono sposata e vivo felicemente da dodici anni”. Mentre parlava, indicò con gli occhi un bell’uomo sui cinquanta, dal sorriso franco e dai magnifici occhi azzurri. “Ecco, è lui, Jean Paul, che per la prima volta mi ha fatto conoscere l’amore e la libertà, l’intimità e la sincerità. Quindi, come vedi, Iris, in fondo, mi ha fatto un piacere. Non sono più Gigliola, ma Jeanne, una donna nuova”.
“Senti mai tua madre e tua sorella?”.
“Qualche volta ci scriviamo. Iris ha avuto un altro figlio nel 1940, Gilberto, che a Natale è venuto qui a Parigi a trovarmi. Frequenta il liceo ed è un vero gioiello, mentre Benito somiglia al padre, prepotente ed egocentrico. Anselmo non ha fatto la carriera sperata (con la fine del fascismo, la stella dello zio ha smesso di brillare) ed è sempre nervoso e di pessimo umore. Dice Gilberto che maltratta di continuo moglie e suocera, in specie quest’ultima la quale, però, continua ad adorarlo e racconta a tutti quanto è bravo suo genero e quanto è bella sua figlia. Perché di figlie dice di averne una sola”. Gigliola piegò leggermente il labbro, scuotendo la testa, nel dire queste ultime parole.
“Sai, Eufemia, quando eravamo vicine di casa, a Grosseto, vi consideravo molte fortunate ad avere una mamma come Anna, sempre gentile, educata, modesta e che, soprattutto, vi voleva davvero bene. Anna stava a Rosa come l’essere all’apparire”. Sul bel volto pallido scese una minuscola lacrima.
Eufemia era commossa e le mancavano le parole. Si abbracciarono, parlarono ancora un po’, per poi salutarsi. “Mi raccomando – aggiunse Jeanne-Gigliola – dai un bacio alla tua mamma da parte mia, e anche a Maria e alla piccina. E a lei, quando sarà più grande, racconta la mia storia, mi raccomando”.
La sottile figura vestita di nero, abbracciata a Jean Paul, si allontanò nel viale parigino, ma si girò per un’ultima volta verso Eufemia lanciandole un piccolo bacio con le dita.
Fulvia Perillo