“Il mare non ha caverne” di Roberto Orsini

Tutti i libri di Roberto Orsini, comandante in pensione nativo di Porto Santo Stefano e residente ad Arezzo, hanno come leitmotiv gli stessi temi: il disagio della povertà, la ricchezza conquistata al prezzo di un duro lavoro, il dialogo formativo tra anziani e giovani, l’ideale di una famiglia come luogo di affetti saldi e duraturi. L’ultima sua fatica, “Il mare non ha caverne“, edito da Effigi, non fa eccezione alla regola, con la differenza che stavolta l’autore volge il suo sguardo ai tempi, anni ’60-’80, del passaggio dalla pesca mediterranea a quella atlantica. Un passaggio improvviso e ancora oggi poco documentato (se si eccettuano i racconti dei pescatori di San Benedetto del Tronto) e che inaugura una pesca oceanica veramente poco regolamentata dalle leggi europee e da quelle di altre nazioni, come la Cina e il Giappone, che dalla fauna e flora degli oceani traggono i maggiori profitti. Il titolo del libro è mutuato da un proverbio che il vecchio pescatore Anchise ama ripetere al giovane protagonista del romanzo per fargli intendere che con il mare non si scherza: se caschi in sua balia, non ci sono caverne in esso, cioè ripari in cui salvarsi. Il mare è una cosa seria perché è un’arena in cui si svolge l’eterna lotta tra la vita e la morte, sia per i pesci che per gli esseri umani. Il libro è la storia romanzata di Ulderigo, che da mozzo su un peschereccio di Porto Santo Stefano diventa, dopo aver conseguito i necessari titoli di studio, comandante e comproprietario di una nave per la pesca atlantica. Attraverso questa storia l’autore ha modo di rappresentarci, con la passione che lo contraddistingue, sia la vita eroica dei pescatori delle imbarcazioni di legno sulle acque mediterranee, sia la vita di solitudine e sacrificio della gente di mare imbarcata sulle navi d’acciaio della pesca oceanica. Il suo sguardo si sofferma soprattutto sugli alti profitti e sulle tecniche della pesca a strascico negli oceani e, anche se non lancia accuse contro nessuno, ci fa comprendere come lo strascico metta a rischio, per l’avidità di guadagno degli armatori, l’ecosistema e la sostenibilità degli oceani. A questo proposito narra un episodio molto significativo. Durante una partita di pesca, il personale di bordo si accorge che il grosso peschereccio si sta inclinando su una fiancata, segno che in una delle due reti parallele è incappato o un pesce di grosse dimensioni oppure un pesante reperto marino. Tirata su la rete con notevoli difficoltà, ci si accorge che un gigantesco pesce sega si sta dimenando con tutte le sue forze per liberarsi, col risultato di restare intrappolato ancora di più. Se si abbandonasse la rete al fondale, si perderebbe tutto il pescato, grossi calamari e gamberi imperiali destinati a una clientela di lusso. Ulderigo da ordine di salvare il pesce sega per salvare anche il pescato. Stupiti i marinai eseguono il suo ordine, faticando e rischiando essi stessi i colpi del grosso squalo, che, issato a bordo, comincia a dimenarsi nei sussulti dell’agonia. Se vogliono salvarlo devono sbrigarsi, ma liberarlo dalla rete è difficile e i tempi si fanno lunghi. Finalmente libero, viene rimesso in mare. Tutti aspettano che riemerga, ma il pescecane non si vede più. Sulla nave cala un silenzio di sgomento, non si è riusciti, dopo tanta fatica, a salvare quel gigante. Sembra strano, per uomini abituati a infliggere quotidianamente la morte a migliaia di creature, dolersi per quell’insuccesso. Non solo pescecani, ma balene, grosse tartarughe, delfini e tanto altro pesce non commerciabile, viene ributtato ogni giorno a mare, non sempre vivo. Ad un tratto si sente il tonfo di un grande impatto nell’acqua: è il pesce sega che è riemerso e riprende spedito il suo viaggio. Da tutto l’equipaggio si leva un esultante evviva. È la gioia misteriosa di aver salvato una vita. Ma c’è nella narrazione di Roberto Orsini qualcosa che va oltre la descrizione del duro mestiere dell’uomo di mare. La sua attenzione è rivolta anche al sentimento d’amore e al senso del sacro. Non tutti gli uomini che Ulderigo conosce possono vantare di avere capacità di amare, sensibilità o afflato religioso, ma quando l’imbarcazione da lui comandata si trova a pescare nell’emisfero sud della Terra, l’autore si abbandona a questa descrizione: “Davanti a se’, verso poppa via, Ulderigo vedeva, bassa oltre l’orizzonte, elevarsi improvvisa la costellazione della Croce del Sud, con le stelle Acrux e Gacrux che ne facevano parte. Una croce meravigliosa stampata nel cielo che lo invitava al raccoglimento, come se nella buia notte si trovasse nella più grande chiesa del mondo, per pavimento il mare circoscritto dall’orizzonte, e per soffitto l’immensa calotta del cielo”. Una descrizione come questa ci invita ad avere il massimo rispetto per l’ambiente, perché la natura è come un libro aperto che l’uomo deve ancora finire di leggere per comprendere il vero ruolo che ognuno di noi ha nell’infinito mistero dell’universo.

Maria Teresa D’Antea

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