“Oltre lo specchio” di Maria Annunziata Gnoni

È difficile che persone depresse si mettano a raccontare la propria malattia nei minimi particolari, quel “male oscuro” che un tempo le faceva finire in manicomio. Magari si mettono a scrivere romanzi o poesie, ma quella che oggi è considerata una fra le malattie più temibili, la depressione appunto, nessuno osa raccontarla nel suo decorso doloroso e straniante. Non solo perché si ha il pudore dei propri mali, ma soprattutto perché ancora oggi chi soffre di depressione è spesso bersaglio di critiche tanto malevole quanto arbitrarie. Occorre molto coraggio per mettersi a nudo nelle proprie fragilità più private. Questo coraggio l’ha avuto la signora Maria Annunziata Gnomi, moglie del farmacista di Semproniano, che ha scritto un libro, “Oltre lo specchio. La mia lotta contro la depressione“, edito da Effigi. Il libretto non è un romanzo, ma la preziosa testimonianza di una devastante malattia della psiche che aggredisce non solo il cervello ma tutto il corpo, divorando ogni energia dell’individuo, ogni volontà di agire, ogni capacità di discernere il bene dal male. La testimonianza di Maria è un tentativo non solo di convincere i malati di depressione a farsi curare perché si può guarire, ma soprattutto è un testo che fa comprendere come la nostra società attuale deve veramente imporsi una svolta nel modus vivendi in cui si è incastrata, fatto di aggressività, malevolenza, incapacità di riconoscere in se stessi e nell’altro la dimensione di una persona da rispettare nella sua unicità, da amare per essere un nostro simile, da prendere in cura per le fragilità insite in ogni essere umano. La società attuale, che è il risultato di tanti secoli di cultura violenta in cui i rapporti umani si sono inavvertitamente sempre più disumanizzati e incancreniti spesso nel disprezzo dell’altro, ha necessità di un cambiamento di rotta nei suoi parametri di convivenza. Dovrebbe riscoprire la gentilezza, l’amorevolezza, i tempi del silenzio e della riflessione, i toni pacati e riflessivi fondati possibilmente sull’autenticità e non su una recita forzata di pura convenienza. Il titolo “Oltre lo specchio” è significativo perché indica l’oggetto spesso elevato al ruolo di implacabile giudice delle nostre forme corporee, specie se siamo donne, lo specchio appunto. In una società in cui l’immagine è tutto, si fa presto a conferire un potere assurdo ad un oggetto, che riflette solo ciò che di noi appare e non ciò che si è, affidandosi ad esso come a un guru che ci dice di non essere belli, di non avere misure perfette, che ci dobbiamo vergognare di noi. Chi si affida allo specchio, tanto nelle favole quanto nella vita, finisce male. Finisce male Narciso, male la matrigna di Biancaneve, male Dorian Gray che fa della bellezza esteriore un ideale tanto vuoto quanto folle. Maria comincia ad avere i suoi problemi con lo specchio fin da bambina. Nasce in una famiglia in cui lei è l’unica femmina accanto a quattro fratelli che come maschi non le risparmiano osservazioni sulle sue forme tondeggianti, purtroppo fuori moda negli anni Novanta, quando il modello cui uniformarsi è la longilinea Barbie, non più le maggiorate dei film prima hollywoodiani e poi felliniani. Maria è una bella ragazza e si fidanza giovanissima con un laureato in farmacia, mentre lei ha dovuto interrompere gli studi per le difficoltà economiche della propria famiglia. Dopo il matrimonio la giovane coppia ha l’ambizione di gestire una farmacia in proprio e si mette alla ricerca per comprarne una. La trovano nella provincia di Biella e si devono preparare ad un complicato trasloco e anche ad un trapianto culturale, perché lasciano la natia provincia di Lecce per una provincia piemontese. Intanto è nato un bambino e Maria si deve dividere fra l’aiuto da dare al marito in farmacia e le incombenze domestiche di ogni donna che mette su famiglia: fare la spesa, pulire casa, preparare i pasti, rigovernare, accompagnare il figlio a scuola. Maria scopre lo stress di un pesante doppio lavoro. In più nei pochissimi ritagli di tempo “mi massacravo”, scrive testualmente, con la cyclette e con una gran quantità di esercizi per gli addominali. Presto Maria non regge più i ritmi che si è imposta e comincia ad avvertire una astenia che le fa desiderare solo di stare a letto, si esprime a monosillabi o si trincera nel mutismo, soprattutto sente nella sua testa “voci” così violente da spaventarla, specialmente quando si trova davanti ai coltelli più pericolosi della cucina. Si confida con il marito che cerca immediatamente il migliore psichiatra nella provincia di Biella. Maria è fortunata, la diagnosi che le viene fatta è quella giusta e non era una cosa facile. La giovane dottoressa le diagnostica una depressione maggiore, la forma più terribile che esista. Si sottopone a una cura farmacologica che però le rallenta molto i movimenti e le impasta la voce che non ha più timbro e toni normali. La preoccupazione più grande di Maria è di non essere una buona madre per il bambino, ma sarà proprio questo amore per il figlio, unito alla tenerezza del marito, a darle la forza di voler guarire a tutti i costi. Anche la suocera, presso cui si reca durante le vacanze estive in Puglia, le dà così tanto affetto da indurla a ricredersi sulla malvagità del mondo. Per essere più vicini alla Puglia i due coniugi comprano una farmacia a Firenze, dove Maria, sempre per interessamento del marito, viene seguita da una psicanalista che le ridosa i farmaci e la sottopone anche alla psicoterapia. A Firenze Maria si riprende piano piano, felice di non aver turbato la crescita del figlio che è adolescente e si prepara alla maturità. I due coniugi si innamorano della Toscana e quando il figlio si laurea in farmacia decidono di comprare la farmacia dì Semproniano. Ed è nella pace di questo paesino del Monte Amiata che Maria, finalmente guarita, decide di scrivere la sua preziosa testimonianza.

Maria Teresa D’Antea

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