Vorrei cogliere questa particolare occasione che mi viene offerta per cercare di mettere in luce, ancora una volta, le ragioni che mi spingono ad apprezzare in sommo grado la scrittura del mio amico Alvaro Giannelli. Perciò parlerò della forma del suo narrare, non dei suoi contenuti. Perché tutti sapete benissimo che se è importante ciò che si racconta, è parimenti importante come lo si racconta. Ho già scritto di come vedo il tessuto linguistico di Alvaro e del suo particolarissimo modo di far intervenire il dialetto all’interno di una griglia di un italiano molto personalizzato e perciò non mi ripeterò. Farò quindi qualche brevissimo accenno su quella che è stata, a parer mio, la nascita e la formazione della sua narrativa.
Io non credo alle scuole di scrittura, come tante ne esistono in Italia sull’esempio americano che però ha almeno il pregio di essere un insegnamento universitario, perchè sono convinto che al massimo esse possano insegnare a rendere più espressiva una frase, a tornirla meglio, oppure a usare certi trucchi del mestiere, ma non a creare dal nulla uno scrittore.
Anche quando i giovanissimi pittori o scultori che avrebbero fatto il Rinascimento andavano a bottega da un maestro, questi li sottoponeva a un esame preliminare per capire se possedevano già un certo grado di doti naturali per diventare artisti.Il dono della narrazione è innato, prescinde totalmente dal grado di cultura, dagli studi, dalle lauree, da qualsiasi titolo accademico e no. Ho conosciuto dei contadini analfabeti che erano degli autentici grandi narratori o affabulatori, se preferite.
Narratori dunque lo si è per nascita, poeta nascitur è stato detto da Orazio nell’Ars poetica, e questo dono lo si può rendere attivo, a mio avviso, attraverso due sole possibilità: o lo studio dei grandi capolavori narrativi, industriandosi a capire perché una parola, un aggettivo, un avverbio, siano stati collocati in un certo posto all’interno di una frase e perché una certa frase inizi in un modo e non in un altro e via di questo passo, oppure apprendendo ogni giorno dalla realtà quotidiana e da essa traendo un’esperienza comunicabile agli altri.
Alvaro appartiene a questa seconda categoria. La sua scuola di letteratura è stata la sua stessa vita, i suoi incontri con le persone, i suoi incontri e scontri con la realtà. Questo gli ha permesso di mantenere una scrittura di perfetta aderenza alla materia narrata, una scrittura sobria, avara di aggettivi e attentissima a non cadere nel gioco e nel giro dei sentimenti facili. Solo Carducci può chiamare il bove pio, per Alvaro una mucca è una mucca senza aggettivi come per Gertrud Stein una rosa era una rosa e basta.
“Que my palabra sea la cosa misma”, ha scritto un grande poeta spagnolo del ‘900, Juan Ramon Jimenez. La parola di Alvaro compie il miracolo di essere la cosa stessa. E qui vorrei aggiungere che il suo merito è doppio. Perché Alvaro non parla di una realtà che è, ma di una realtà che fu.
Il titolo stesso di quest’ultimo libro lo indica chiaramente. Alvaro sfrutta la sua prodigiosa memoria e di queste memorie ci rende partecipi. Dico partecipi e non lettori. E come ottiene questa partecipazione a un tempo razionale ed emotiva?
Guardate che scrivete lavorando di memoria non così facile come potrebbe sembrare. La memoria tende parecchi tranelli, tra l’altro la distanza temporale sfuma la vivacità dei colori, come accade per certi affreschi ricoperti dalla patina del tempo, e allora inconsciamente si cerca di fare un restauro che finisce con l’alterare le proporzioni e la prospettiva stessa.
Fuor di metafora, vog1io dire che spesso la scrittura di memoria. inclina al sentimentale e fa magari apparire bello ciò che bello non era, bella era semmai l’età nella quale quel fatto, ora diventato memoria, era presente e vivente. Questo rischio Alvaro non l’ha mai corso, la sua scrittura è saldamente ancorata alle cose com’erano, senza concessioni, giustificazioni, apprezzamenti o ripulse.
Ma non si tratta di una scrittura non partecipata, asetticamente oggettiva, intendiamoci bene. Se il ricordo di Alvaro non viene inquinato dal tempo questo non significa che Alvaro diluisca il vissuto, lo stemperi, ma al contrario che riesce a mantenerlo, per noi, in un magico e continuo tempo presente.
Il segreto della sua scrittura consiste proprio in questo.
Perché la prima pagina di questo libro, tanto per fare un esempio, che illustra la mancanza di latte a Casteldelpiano in un tempo che adesso ci appare remotissimo, è tutt’altro che didascalica e ci prende quasi fosse appunto un racconto?
Perché nella scrittura di Alvaro ci sono continui “varchi”, non saprei come altrimenti definirli, che si aprono sempre su realtà concrete, umanissimamente concrete. Vi leggo la prima frase del libro.
“Il latte è alimento essenziale per la crescita dei bambini, per chi , è malato, per i vecchi deboli e sofferenti, a tutti avrebbe fatto bene consumarne di più”. Quest’incipit si divide in due parti. La prima è didascalica, la seconda introduce direttamente nel cuore del problema che l’autore vuole trattare, e cioè che consumare più latte avrebbe giovato, ma … Però io ho fatto, volutamente, un’omissione. Non ho letto un inciso tra due virgole, quello che ho definito poco fa un varco. Rileggo la frase nella sua interezza.
“Il latte è elemento essenziale per la crescita del bambini, per chi è malato, per i vecchi deboli e sofferenti, ed allora erano tanti senza denti, a tutti avrebbe fatto bene consumarne di più”.
Ecco, quest’inciso è come il primissimo piano che interrompe una lunga carrellata cinematografica e apre un varco sull’umanità, sul quotidiano dell’umanità, è una goccia di sofferenza che cade improvvisa all’interno di una descrizione di fatto, oggettiva, mutandone di colpo la valenza, da oggettiva in soggettiva, vale a dire tramutando la in narrativa.
La scrittura di Alvaro è come un placido fiumicello di montagna che sembra scorrere tranquillo, ma in realtà, ad osservarlo bene, si scopre che qua e là è continuamente percorso da increspature, da piccoli gorghi, da minuscoli vortici, per cui il percorso dopo ci appare assai più mosso e movimentato di quanto non ci fosse sembrato a prima vista.
Alvaro è uno scrittore a “cavare”, inteso cioè ad ottenere un massimo di riscontro nel lettore con l’impiego di un minimo di mezzi. Ho scritto nella prefazione che l’affresco di Alvaro non si potrebbe chiamare “paesaggio con figure” ma semmai “paesaggio e figure” o meglio ancora “figure nel paesaggio” perché l’interesse principale dell’autore è sempre l’uomo. La centralità dell’uomo è il punto focale del suo narrare. Ad Alvaro, curioso degli uomini, per dirci del carattere, del difetto, del pregio di ognuna di queste figure del suo paesaggio, che altri non sono che gli uomini e le donne del suo paese, basta un solo aggettivo. Mentre ad altri non sarebbe bastata nemmeno una mezza pagina.
Alvaro i suoi compaesani li conosce intus et in cute così profondamente che con un solo aggettivo riesce a condensare, a riassumere il loro Dna. Nella sua scrittura, a farne una sorta di analisi chimica, si trovano presenti sempre due elementi costanti: il pudore e l’arguzia. Arguzia è una parola ormai desueta nella narrativa italiana.
Oggi nella narrativa dei giorni nostri possono essere presenti l’ironia e il sarcasmo perchè viviamo in tempi dai quali si vuole prendere un certa distanza attraverso l’ironia (perché questa è, sostanzialmente, l’ironia, una presa di distanza) o che si vogliono combattere col sarcasmo.
Ma Alvaro non vuole mettere nessuna distanza tra sé e la memoria che intende tramandarci. Lui è completamente immerso in quel tempo e perciò, quando occorre, lo commenta con arguzia, che è la forma affettuosa di considerare un evento mettendone in evidenza anche gli aspetti che possano muovere al sorriso.
L’altro elemento è il pudore. E per pudore qui intendo il rispetto di sé e dell’oggetto del suo narrare. Rispetto che nella scrittura si esplica in un tono medio, che non esasperi i toni drammatici di una vicenda drammatica ma che nel contempo non ne sfumi i contorni alleggerendola di significato e di portata. Qualcuno potrà obiettarmi çhe l’affresco che Alvaro da anni dipinge ha in fondo una tematica provinciale addirittura paesana e quindi potrà interessare pochi, al di fuori naturalmente dei suoi conterranei.
Osservazione del tutto errata. Un grande scrittore russo disse: “racconta bene il tuo villaggio e avrai raccontato il mondo”. Gli uomini che sono al centro dell’affresco di Alvaro, contadini o operai, sono uguali in tutto il mondo quale che sia il colore della loro pelle o l’etnia alla quale appartengono. Nascono, vivono e muoiono allo stesso modo. Se sono poveri, sono poveri allo stesso modo. Se soffrono, soffrono allo stesso modo. Perché il dolore, come diceva Saba, ha una sola voce e non varia.
Per questo la parola così appartata di Alvaro, ma così limpida, così genuina, così colta e popolare a un tempo, potrebbe essere intesa, e,perfettamente capita, ne sono più che convinto, in ogni lingua parlata dall’uomo.
Andrea Camilleri
“Partecipi e non lettori” spiega molto bene (e in quattro parole) la differenza che c’è fra una scrittura ad alto tasso di letterarietà (che gratifica il lettore attraverso l’uso di una lingua ricercata e ricca, ma lo tiene a distanza) rispetto alla letteratura di genere (nella quale la scrittura è al servizio della storia e, per così dire, tende a sparire davanti agli occhi, in virtù della propria semplicità e immediatezza, per essere sostituita dalle immagini che evoca). Nel secondo caso chi legge ha l’opportunità (illusoria ma non per questo meno efficace) di “vivere” dentro alla narrazione creata dall’abilità di chi racconta la storia. Questa “immersività” Camilleri la conosce molto bene e molto bene la sa applicare ai suoi lavori, con grande successo e da molti anni; da queste sue parole pare scaturire il piacere di aver riconosciuto un talento simile al suo. In questo senso è indicativo il fatto che si sottolinei che non c’è alcuna ironia nelle intenzioni del testo proprio perchè con l’ironia, consapevolmente, ci si allontana dalle proprie parole e, in fondo, dagli oggetti del proprio narrare. Ecco: l’auspicio è che i campioni del “qui lo dico e qui lo nego” abbiano fatto il proprio tempo. Largo, invece, a persone che con parole semplici parlino di cose vere. A prescindere dal fatto che queste siano vestite con l’abito della finzione, della memoria, della storia o altro.