Se Anna, mia madre, aveva avuto in sorte di acquisire col matrimonio, un cognome lezioso come Tesorini, sua sorella Maria (che mai aveva voluto essere da meno) era riuscita a sposare Giorgio Gioielli, di professione ferroviere. Così le sorelle Sandrelli avevano dato vita ad una stirpe di Gioielli e Tesorini, praticamente un piccolo forziere di preziose tenerezze… Ma, tra le pietre preziose del portagioie di famiglie, ne era venuta al mondo una un po’ speciale, per la quale il cognome Tesorini pareva capitato per puro ed ironico accidente, mentre il nome di battesimo, Desdemona, era già più adatto, se non altro per il suono importante e l’apparente doppio accento Dè-sdè-mo-na.
Parlare di mia sorella mi imbarazza sempre un po’. Forse perché siamo così diverse. Oppure perché i suoi comportamenti mi sono spesso sembrati fuori luogo, fin dall’infanzia, quando era turbolenta e litigiosa e, soprattutto, con la risposta pronta, a differenza di me che, come dicono i francesi, avevo al massimo l’esprit d’escalier, ovvero quello spirito ritardato che ti fa venire in mente la cosa giusta da dire mentre stai già scendendo le scale.
Sorvolo sulle sue storie giovanili, numerose e sempre troncate da lei.
Tutto questo mentre studiava con impegno, però. “Sono due cose separate – diceva sempre – un conto è lo studio, un conto i ragazzi”.
A differenza delle Incompiute che, come abbiamo visto, facevano d’ogni erba un fascio, rendendo la loro vita piuttosto difficile. Ora non si può dire che quella di Desdemona fosse un’esistenza lineare, se si parla di sentimenti. Ma lo era per il resto. All’università scelse Psicologia e, dopo la laurea, lavorò per qualche anno in un consultorio. Poi, con grande cruccio dei nostri genitori statali, lasciò il posto fisso per la libera professione. E, devo dire, che divenne in breve una psicoterapeuta nota e stimata, spesso anche richiesta come perito in tribunale. Fu lì che conobbe quello che avrebbe poi sempre definito “il socialista craxiano”. In effetti lo era, ma la sua vera professione era il cancelliere di tribunale, solo che spesso faceva da portaborse ad un onorevole socialista e su questo fatto mia sorella lo aveva preso in giro fin dal primo momento.
“Cosa ci porti nella borsa, Osvaldo? Il sedano? Oppure è vuota come la tua testa?”.
Ora, bisogna dire che, a un uomo normale, basterebbe una frase come questa per fuggire lontano. Ma il biondo e longilineo Osvaldo, abituato a donne che per lui facevano pazzie, sia perché era davvero un bel giovane, sia per il potere indiretto che rappresentava, rimase fulminato dai modi poco urbani della rampante psicologa.
La quale si era sempre buttata nella vita tanto quanto io avevo cercato di rimanere al coperto.
E poi era solita raccontare le sue storie con una disinvoltura per me impensabile.
Poco tempo prima di incontrare l’Osvaldo, ad una cena tra donne (presenti, oltre a me le Incompiute e Martina), ci aveva raccontato quella che era rimasta poi nota tra noi come “la faccenda del rossetto”.
Era accaduto che mia sorella, dopo una cena a lume di candela con uno dei suoi corteggiatori di nome Mario, avesse deciso di concludere la serata a casa di quest’ultimo. Il quale, dopo qualche preliminare e quando entrambi erano già spogliati, aveva avuto l’infelice idea di premettere che non voleva legami.
Desdemona, a cui, come ho detto, non mancava mai la parola, lo aveva guardato con attenzione, soprattutto “lì” e poi aveva concluso: “A cosa dovrei legarmi, scusa? Mi sembra un rossetto, anzi, piuttosto un campioncino della Avon”.
E con queste brevi parole lo aveva letteralmente steso. Si era rivestita e se ne era andata, consigliandogli l’indirizzo di un collega psicologo per riacquistare l’autostima.
Con il socialista craxiano, superata la questione della borsa, le cose erano invece andate bene. Desdemona e Osvaldo sembravano entrambi soddisfatti e lei, per la prima volta, rilassata, tanto che aveva concesso al sunnominato di abitare con lei nei fine settimana. Lo aveva perfino accompagnato a qualche congresso socialista dove aveva conosciuto anche Bettino e pare che, proprio in occasione di uno di questi eventi, dopo una cena dove forse aveva esagerato col vino, le sue difese si fossero talmente abbassate, da consentire ad uno spermatozoo del portaborse di incontrarsi con un suo ovulo fresco di giornata.
La gravidanza di Desdemona era stata per la nostra famiglia insieme fonte di grande gioia e di notevole preoccupazione.
Prima di tutto, non riuscivamo ad immaginarla mamma, così egocentrica come era.
E poi non voleva saperne di matrimonio, cosa che ai nostri genitori, agli zii e alla nonna matriarca non faceva certo piacere.
Ma lei, rivolgendosi proprio alla nonna, aveva detto che pure avrebbe dovuto capire: in una famiglia come la nostra, gli uomini erano un necessario accidente, forse un’appendice. Quindi sposarsi non aveva senso.
Criticata dalle nostre madri, ma compresa da me e da Martina, aveva portato avanti gloriosamente la sua gravidanza, come un trionfo di femminilità.
Era così che amava definire il suo modo di essere donna “Il Femminile Trionfante” diceva. E non aveva dubbi che la creatura concepita all’ombra di Bettino fosse una femmina. Infatti, il 25 aprile del 1990 (quale data avrebbe potuto essere più adatta per una madre così libera) nacque la mia nipotina adorata, Elisabetta, che i genitori chiamarono subito Bettina, naturalmente.
Desdemona si organizzò quasi subito per tornare al lavoro: nonni, baby sitter e anche zia. Eravamo tutti a disposizione, compreso il bell’Osvaldo che curava e cullava la piccina con tenerezza decisamente superiore a quella materna.
Bettina era bionda come il padre, dolcissima e buona. Per questo tutti noi non vedevamo l’ora che fosse il nostro turno per coccolarla un po’, prima di riaffidarla alle regole ferree della madre che la nostra biscugina Diana (già a sua volta mamma di due bambini) aveva soprannominato ironicamente “La Montessori”.
Per quattro anni tutto sembrò andare per il meglio tra i genitori della piccola Bettina, tanto che in famiglia si continuava a pensare che prima o poi si sarebbe celebrato quel matrimonio “riparatore”.
Ma il Destino riserva talvolta svolte improvvise ed inattese.
Un giorno di maggio del ’93, era appena concluso l’anno scolastico, Desdemona propose a me e a Martina di andare a cena insieme, dato che Osvaldo aveva una riunione politica a cui non poteva mancare (intanto la situazione era cambiata, i socialisti sopravvissuti al terremoto di tangentopoli cercavano di organizzarsi in qualche modo). Sarebbe stata l’occasione per stare un po’ insieme noi tre e Bettina, passare una serata a ricordare la vicenda del rossetto e altre divertenti storie del passato di mia sorella.
Avevamo deciso di andare al ristorante cinese, ma, all’ultimo momento, Martina espresse il desiderio di mangiare pesce ben cucinato. “Andiamo a Porto Santo Stefano, dai. Non ho voglia di involtini primavera”. Così ci avviammo verso la nota e prestigiosa località che abbondava di ristoranti dove gustare ogni specialità di mare.
Mentre cercavamo il parcheggio, cosa non facile in quel periodo, ad un tratto Bettina esclamò: “Mamma, guarda, c’è anche papà!”.
“Ma meglio!” disse mia sorella. Poi girò lo sguardo e si rese conto che la bambina aveva ragione. Il portaborse craxiano, infatti, era seduto al tavolo di un bar, con un aperitivo di fronte, ed una graziosa ragazza a fianco. I due stavano mano nella mano, occhi negli occhi…
Desdemona, completamente amimica, si rivolse semplicemente a Martina che guidava: “Avvicinati a quel tavolo”.
“Ma lascia perdere, chiarisci dopo…”.
“NO – lei imperiosa – fai come ti ho detto”. Una volta accostati al tavolo, mentre i due colombi tubavano, mia sorella abbassò il vetro del finestrino e, affacciandosi, a voce alta, disse: “BUH”. L’Osvaldo sobbalzò e così pure l’attraente signorina che lo accompagnava. “Ora puoi andare, Martina”.
Da quel momento, Desdemona decise che mai più nessun uomo avrebbe abitato a casa sua. Fece le valigie al suo convivente infedele e le lasciò fuori della porta, con un sedano che spuntava da un borsone. A nulla valsero i tentativi del papà di Bettina di spiegare, scusarsi, cercare di proseguire quel rapporto a cui, nonostante lo svarione, teneva molto.
Mia sorella mantenne rapporti civili e misurati, permettendogli di vedere la figlia senza limiti di tempo, ma non volle più saperne di lui come compagno.
Bettina è cresciuta così in una famiglia più che matriarcale, a contatto con il solitario trionfo del femminile e con un maschile pronto a ogni suo ordine, pieno di sensi di colpa ed anche sottilmente depresso.
Mi capita spesso di parlare col mio mancato cognato, perché i nostri rapporti sono rimasti cordiali e, devo dire, che lui, a distanza di tanti anni, non si dà pace per la perdita di Desdemona. Anche se poi ha una compagna e anche un altro figlio, perché raramente si vide uomo capace di star solo, pur nelle sofferenze d’amore.
Mia sorella, invece, non ha più avuto convivenze né rapporti ufficiali, ma noi tutti sappiamo che, da anni, ha un fidanzato segreto con cui trascorre la domenica.
Solo la domenica? Potrà obiettare qualcuno. Certo. Lei lo chiama L’uomo della domenica, parafrasando il titolo del romanzo di Fruttero e Lucentini, La donna della domenica. E il settimo giorno della settimana non è mai disponibile. Con gli altri accampa le scuse più varie, ma con me e Martina, con cui può esprimersi liberamente, dice che la domenica è dedicata al sesso. Anzi, lei usa un termine più colorito. “Fino al venerdì si lavora, il sabato per la famiglia e la domenica si t…, care mie”. A noi lo può dire, siamo abituate a lei e al suo essere intrepida, a quella particolare modalità di essere che il passaggio dei cinquanta e la menopausa non hanno minimamente modificato.
Fulvia Perillo