Di corsa: pure oggi.
Di corsa mi sono alzata e ho svegliato mio figlio per la scuola.
Di corsa ho mandato giù un po’ di caffè salutando mio marito, e sono uscita.
Di corsa verso il pullman che mi porta al lavoro.
E lì, seguire il ritmo: ore e ore sulla macchina, a misurare la concentrazione.
Nella postazione, trovare un accordo tra i tempi dell’oggetto e le mie mani.
Non ho nessuna voglia di provare l’effetto degli ingranaggi sulle dita.
Mi piacciono così come sono, semplici e capaci di fare le cose.
Un boccone in pausa pranzo e ricominciare, ancora, fino alla fine del turno, per poi tornare a casa dopo aver lasciato un pezzo di me; ogni giorno un pezzo e poi un altro, fino a quando non ne avrò più.
Qualche ora durante la settimana, per liberare le scorie che accumulo, saltellando sopra un tappetino insieme ad altre con la mia stessa faccia.
Facce stanche, sudate, sotto il ritmo musicale; storte durante l’esercizio, luccicanti nelle pieghe di una ruga spalmata a crema, perché non solchi troppo.
Una volta a casa, qualche minuto per lasciar correre l’acqua della doccia sul mio corpo ogni giorno un po’ diverso, trasformato, segnato dagli infiniti spostamenti.
E ancora di corsa per affrontare le cose del mondo, per cercare con altri di cambiarlo in meglio, anche solo nella mente e nel cuore.
Dentro quelle stanze con le sedie rotte, i tavoli affumicati e le pareti che odorano di oratorio.
Dove parlare di scuola, progetti, figli e altro, sembra di affogare in un acquario.
E tempo, ancora: per la caldaia, per il rubinetto del lavandino che non funziona, per la tassa della mensa scolastica scaduta, per la visita ai denti del piccolo, per i suoi compiti: che fai, non lo aiuti? E poi le lingue: vedrai che così potrai viaggiare, vedere il mondo ma anche condividerlo, capirlo, ascoltarlo; vedi che la matematica non è difficile, t’insegna a ragionare, a risolvere i problemi. Tempo per sentire la tua anziana mamma: ma certo, certo che vengo domenica, vedrai; e lo so, lo so che non ti chiamo ma non credere che non ti penso:
Ma tanto so anche che appena chiusa la cornetta lei resterà immobile, col capo reclinato, appoggiata su quelle stesse mani che mi hanno cresciuto, piene d’attesa, di sacrifici, di speranze mai sopite e di delusioni sfiancanti.
Tempo ancora per la spesa tutti insieme, per le giornate da uscire e quelle da restare a casa, quelle per i compleanni, nostri e degli amici, tempo per me e per lui, a fare l’amore se la fatica non ci stramazza, e poi le domande: quelle di sempre e quelle nuove. Cominciare dal confidarci se ci amiamo ancora per finire a fare il conto del tempo che ci dedichiamo a quello dei soldi: soldi che non bastano mai, che finiscono ogni mese di più, ogni mese sempre prima.
Vivo di corsa per tenere insieme tutto questo.
Di corsa per lamentarmi di un tempo che non c’è e che alla sera mi mostra, allo specchio, quanto di corsa viaggi anche lui.
Allora mi metto le mani sul viso.
Osservo i suoi lineamenti.
Tiro un po’ la pelle ai lati degli occhi, e recupero una linea della curva delle guance, nel respiro di un gesto minimo.
Provando a lasciar fuori per un momento il domani di sempre e smettendo di preoccuparmi per il domani futuro.
Solo ora: ora e basta.
Un momento col cuore e la testa in stand-by.
Mio figlio entra in bagno e mi chiede se mi accoccolo con lui, ed io, nonostante la sua età, lo faccio volentieri. Mi stendo accanto nel letto insieme alla copertina a rombi di lana fatta dalla nonna, e gli sussurro tenere parole in rima, con una melodia appena accennata.
Gli soffio parole di gratitudine che accennano alla bellezza che mi riporta ogni giorno quando mi sorride, della splendida vita che farà.
Il suo respiro cambia repentinamente.
S’è addormentato.
Ed io gli vado dietro, mi lascio afferrare dai suoi sogni, dalle sue mani bambine nella stanza piena di manifesti con super eroi e gagliardetti sportivi.
Nella stanza a fianco, dove entro aggiustandomi un po’ i capelli, il mio uomo legge, legge il suo libro come tutte le sere, e come sempre, appena mi avvicino, mi fa ascoltare qualche riga.
Anche se morta, nell’affondo sul cuscino, non posso non ascoltarla.
È bella la sua voce: calda, profonda, capace di farsi sentire partendo dalla pancia fino alla testa.
È sempre stata così, da quando ci incontrammo la prima volta: mi piaceva il suono che facevano nella sua bocca le parole, il gusto che rimandavano, e i baci non erano da meno.
Mi piacevano i suoi abiti color tabacco.
L’anarchia fin dentro la pelle.
Mi piaceva la sua ostinazione a mettersi di traverso se il mondo andava da un’altra parte.
Come ora mi piace la sua intelligenza sentimentale, il suo amore per il nostro ragazzino che cresce.
Il cacciavite in mano non gli appartiene, neanche il martello.
Le maniglie delle porte restano da aggiustare, i muri da pulire, gli elettrodomestici da manutenere, ma quando gli chiedo e lui mi risponde, dentro di me s’aggiusta tutto.
Quanto vorrei, ora, essere meno stanca, per lasciarmi trasportare dalle sue braccia forti e dalle sue mani che sanno a memoria il mio corpo.
Non gli invidio nulla, solo la pace.
Tutto sembra più semplice, riesce sempre a fare in tempo, a stare nel ritmo del suo fiato, sono io: io, che ce l’ho corto.
E non solo io.
Dovunque mi giro, vedo i visi rapidi delle altre.
Indaffarati, costretti con la borsa in spalla da supporto al cellulare.
Vedo un trucco coi gesti contati e le scarpe da cambiare.
Le vedo tutte con qualcosa addosso di pensato al volo, infilato in fretta, sempre in fretta, ma comunque decente, quasi elegante nella loro scomposta ordinarietà.
Durante il caffè, prima del lavoro, ascolto le loro parole, i fatti della loro cronaca giornaliera.
Le puntate precedenti, i sequel e gli effetti dirompenti di alcune decisioni drastiche sul taglio dei capelli, sull’uso di un colore diverso per lo smalto dell’anulare.
Ascolto anche le loro premure, la paura di un lavoro sempre precario, e il tremore della giovanissima collega ora in attesa dell’aspettativa per la gravidanza.
Gli leggo la paura negli occhi, il timore di un cartellino che possa diventare obsoleto.
Allora gli stringo la mano, gli offro la tazzina zuccherata e gli sposto i capelli appena unti per misurare il tempo del suo battito cardiaco.
Lei mi risponde, mi sorride con quel sorriso che ha ogni donna che sta diventando madre.
Sembra una cosa scontata, ma non lo è. Non lo è affatto. Quando è possibile, quando ci sono le condizioni, ogni donna in attesa di un bimbo è bellissima, sempre, anche con il camice da lavoro. Ma dentro il capannone, quell’indumento si piega sulla stessa misura: tutte uguali, tutte di spalle o a fianco, tutte in silenzio nel frastuono delle macchine con la testa tra le cuffie tenute a modo col nastro isolante.
In bagno, nel tempo contato che mi danno, appoggio la testa alle maioliche e mi permetto una sigaretta, l’unica, respirata a boccate piene fino in fondo.
Stringo le mani intorno alle braccia.
Sento il tessuto duro e resistente del camice: vorrei non doverlo indossare, vorrei andar via, ma poi penso che non appartiene solo a me, appartiene a tutta una schiera di simili a me che in un secolo l’hanno portato, difeso, onorato.
Spengo la cicca dentro il water, tiro l’acqua, la pausa bagno è finita, devo riprendere, le telecamere spiano e tracciano un orario che qualche volta la vescica non condivide.
Fuori, dopo la sirena, in attesa del pullman del rientro, sulla banchina, il cielo sembra salutarmi con un rosso tramonto.
L’osservo appena incantata, e penso, ecco: un’altra giornata è andata.
Dove troverò il tempo, come potrò trattenerlo anche solo un istante fra tutte le mie pene, le mie parole, il mio sudato bisogno di aria, di riposo, di pensieri oltre il catrame del selciato cittadino.
Allora fisso l’ultimo spicchio di luce e lascio che i miei occhi possano assorbirlo per trascinarlo fin dentro quest’anima agitata e stretta, per allargarne almeno un po’ il confine.
In un tema a scuola un compagno di mio figlio ha scritto che le mamme sono le eroine di questi tempi veloci.
Non posso che dargli ragione, ahimè.
Mio figlio sorride sornione verso il padre che gli rimanda l’espressione.
Non fate gli scemi, gli dico, voi che ne potete sapere.
Poi beviamo insieme un po’ di vino allungato con l’acqua concludendo la cena.
Li vedo sparecchiare, mettere le cose nell’acquaio e correre verso il divano.
Ritorno alla frase del tema: ma per essere eroi non bisogna immolarsi? Non bisogna salvare delle vite? Penso ai vigili del fuoco, ai cani addestrati, penso ai volontari che spendono il loro tempo per darne a chi non può permetterselo.
Poi, nella penombra della luce della cappa della cucina, ripasso il girone percorso nella giornata e mi dico che no, non è necessario ammazzarsi per essere eroi.
Bisogna restare in piedi.
Dentro quest’ingorgo incoerente, è necessario continuare ad esserci.
Ed è tutto quello che serve.
Spengo la luce della cappa.
Raggiungo il divano e m’infilo tra loro sotto la coperta di flanella.
Ce la dividiamo tutti e tre.
Mi appoggio sulla spalla del piccolo e chiudo per un momento gli occhi.
Fuori dalla finestra, la stanza dal riflesso blu si confonde con le altre del caseggiato fabbricato: un lego, disegnato, uguale a tutti gli altri di questa periferia.
In ogni salone la stessa luce, la stessa fatica, lo stesso bisogno di sognare attraverso la vita degli altri che lo schermo offre in abbonamento.
Intorno alla grande via consolare, la città si cheta, sembra tornare a casa anche lei.
Più in alto ancora, la luna tenta una linea di luce arredata col taglio mediorientale.
Ma sotto di essa non c’è appesa nessuna altalena per giocare.
Domani sarà di nuovo giorno.
Ancora di corsa, solo la brina a salutare.
Stefano Lucarelli
Bello il rovesciamento….
Poetico e asciutto al tempo stesso. Grazie Stefano… Hai proprio la stoffa del narratore
Il frastuono delle macchine, i tessuti duri e resistenti delle camicie, i muri da pulire, nel caos assordante dei giorni la salvezza è vivere, per un istante ad occhi chiusi, per un abbraccio, per sognare. Grazie Stefano per la tua sensibilità
Intenso. Uno spaccato di mondo e di cuore. Chiedendosi ogni giorno il perché. Chiedendosi ogni giorno che senso possa avere la vita. Uno sterminato mare di eroine che nascono vivono muoiono, senza che nessuno dica loro grazie per esserci state. Senza di voi il mondo sarebbe già sprofondato.
C’è sicuramente una forza descrittiva rilevante e di tutto rispetto che però, a mio parere, andrebbe lavorata e “costretta” nella produzione di una sceneggiatura con inizio, sviluppo e fine. Abbiamo tutti bisogno di storie che ci aiutino a guardare dentro, di una leva che scardini le immancabili maschere che portiamo. Dunque Stefano, quel che riesci a vedere anche in un forsennato quanto coraggioso tran tran quotidiano di una splendida mamma, “usalo” per dare voce agli spettri veri o falsi che perseguitano questa umanità divina e dolorante insieme. In bocca al lupo per i tuoi traguardi che, ovunque portino, possano stravolgere chi legge e riconsegnarlo a se stesso.
Il racconto di Lucarelli ci fa entrare nel cuore e nell’anima di una donna di questi tempi: tempi brevi, brevissimi, scanditi da un ritmo senza fiato che chiude il respiro.
Eppure queste istantanee, descritte con una scansione quasi cinematografica, e realizzate con una scrittura matura e puntuale, ci permettono di partecipare del desiderio di un cambiamento che possa superare la realtà. Quella dove la felicità puo’ arrivare da “uno spicchio di cielo”, oppure da “una brina a salutare”.
Leggere questo racconto mi ha fatto sentire fortunata e contenta della vita che conduco.
È stato forte osservare dalla finestra, al caldo, questo paesaggio denso, duro e sinuosamente schietto.
Grazie agli scrittori e a te, Stefano, queste voci che non hanno voce vengono raccontate e udite e un giorno saranno un ricordo, un esempio, un momento.
Un affresco crudo ma partecipato della working class. Una storia del tantissimi che ogni giorno vedono borseggiata la legittima ricerca della felicità da “freni” di ogni tipo e genere imposti dalle classi dominanti. Un’idea alla quale si potrebbe dare ancora più corpo. Bravo, complimenti