D: Professoressa Bartalucci finora nelle sue pubblicazioni si è occupata del ‘600 inglese e in particolare del pensiero religioso di Edward Herbert di Cherbury, come ci spiega il suo interesse attuale per Giambattista Vico, che l’ha portata a scrivere e pubblicare il suo ultimo libro sull’espressione vichiana Ignota latebat e sull’immagine allegorica del frontespizio della Scienza Nuova del 1744.
R: In realtà il mio interesse per Vico e quello per il deismo inglese, declinato però nelle sue diverse forme, sono andati da sempre di pari passo, se si considera che la mia tesi di laurea sul pensiero religioso di Edward Herbert di Cherbury, di cui fu relatore Cesare Vasoli e controrelatore Nicola Badaloni, si concludeva proprio con una citazione tratta dalle Orazioni Inaugurali di Vico. Ho fatto riferimento a Vico in quasi tutte le mie pubblicazioni su Herbert, ma soprattutto nel mio ultimo libro del 2018 Religio Laici. Edward Herbert di Cherbury, John Dryden, Charles Blount, Deismi e violenza politica nell’Inghilterra degli Stuart , mi sono soffermata al paragrafo 7 del capitolo I, su uno dei punti nodali che, credo, connetta il filosofo napoletano al filosofo inglese. Entrambi , a mio avviso, tengono conto della polemica bonaria di S. Agostino nel De Civitate Dei con l’intellettuale ed erudito romano Varrone in merito alla “doppia religione”, quella degli intellettuali e quella per il popolo. Questa polemica, cui Vico accenna indirettamente nel De Uno del 1720 e che forse potrebbe anche di per sé indicare un punto di svolta rispetto alle tesi della “sapienza riposta” del De Antiquissima Italorum Sapientia del 1710, aveva portato, dal mio punto di vista, in modo acclarato Herbert, che viveva, ricordo, all’epoca della rivoluzione puritana inglese e proponeva istanze di riforma non solo religiosa ma anche politico-sociale, ad esprimere un’idea del tutto nuova, appunto nei confronti del popolo, del ruolo dell’intellettuale laico in ambito religioso.
D: Ha parlato di Nicola Badaloni, il quale, oltre ad essere uno dei più importanti studiosi di Vico, ha affrontato in un suo libro il rapporto tra Herbert di Cherbury e il filosofo napoletano. Lei sta seguendo la sua stessa linea?
R: In linea di massima direi di no in quanto l’assunto iniziale del libro di Badaloni su Herbert e Vico, che è del 2005 e di cui lei ha detto, è proprio quello di sottrarre Herbert dalla tradizione ermetica. E confesso che proprio quel libro, non ricco di dati bibliografici e fondato su alcune ipotesi che direi poco circostanziate, non certo relativamente a Vico , di cui Badaloni era e rimane ad oggi uno dei più insigni specialisti, ma al pensiero di Herbert, ha rappresentato l‘input che mi ha portata a pubblicare, qualche anno dopo la sua uscita, la mia tesi di laurea approfondita e aggiornata. Il libro intitolato La religione della Mente. Paganesimo e tradizione ermetica nel pensiero religioso di Edward Herbert di Cherbury dal De Veritate al De Religione Gentilium dimostra,insieme ai tutti i miei lavori successivi, attraverso dati bibliografici certi e analisi documentate dei contenuti, che Herbert è stato proprio un epigono seicentesco di quella tradizione, a differenza di quanto appunto detto da Badaloni.
D: Quindi lei in definitiva dissente dalle prospettive di Badaloni.
R: Non è propriamente così in quanto condivido appieno il fatto che Badaloni, collegando Vico ad Herbert, quindi ad un pensatore europeo, abbia però voluto probabilmente dare in anticipo una svolta a quella che è diventata poi quasi una moda : vale a dire ritenere Vico un più o meno dissimulato discepolo di Spinoza.
D: Ci spieghi meglio.
R: Si era già in precedenza collegato Vico a Spinoza, ma probabilmente, dopo l’uscita nel 2009 del libro dello storico inglese J. Israel A Revolution of the Mind , basato sull’idea che da una parte c’è stato un illuminismo radicale ispirato a Spinoza , dal quale è scaturita la democrazia moderna, dall’altra invece un illuminismo non spinoziano moderato, e retrogrado , si è fatto di tutto anche in Italia per inquadrare Vico nell’ ambito dell’illuminismo radicale, facendone appunto un seguace delle idee di Spinoza. D’altra parte se è vero che Vico ha un atteggiamento definibile sfaccettato rispetto a tutte le sue fonti, che talvolta contrasta e al tempo stesso utilizza, va però aggiunto che polemizza di fatto proprio con quelli che chiama spinozisti.
D: Chi sono gli spinozisti.
R: Ecco ha toccato un altro punto in cui la penso diversamente da Badaloni, i Deisti di cui parla Vico nel capitolo IV del De Constantia Iurisprudentis del 1721 e i Deisti ovvero gli Spinozisti della Scienza Nuova del 1730 non sono propriamente Spinoza, come dice appunto Badaloni, ma, a mio avviso, come ho chiarito al paragrafo 4 del capitolo 5 sempre del mio libro Religio Laici, sono i deisti materialisti inglesi che, come si appropriarono e lo svolsero ai loro fini, del pensiero di Giordano Bruno (vedi John Toland) così fecero con Spinoza ma anche con Herbert di Cherbury, del quale produssero e fecero circolare anche dei testi falsificati. Esemplare è il caso di Charles Blount, che il poeta John Dryden smascherò rispetto ai suoi reali fini, che erano quelli di giustificare, sulla base di un relativismo morale assoluto, addebitato appunto tramite dei testi contraffatti a Herbert di Cherbury, l’uccisione del re d’Inghilterra Carlo I Stuart prima e di Carlo II Stuart poi col fallito Rye House plot, come ho detto e dimostrato sempre nel mio Religio Laici.
D: Che cosa significa relativismo morale assoluto e in che senso si può rapportare a Vico
R: L’argomento è complesso ma include anche in parte una strumentale rielaborazione delle idee di Bruno e di Spinoza ed è proprio il contrario di quello che accomuna invece Herbert e Vico, vale a dire la rivisitazione in chiave moderna e laica del tema platonico, neoplatonico, agostiniano, e ficiniano delle verità universali eterne, da cercarsi e ritrovarsi nell’interiorità dell’uomo e che i due filosofi, utilizzando anche espressioni e frasi sovrapponibili, hanno in comune, diversamente dai deisti relativisti inglesi.Va anche detto che l’operazione di incentrarsi solo su un Vico spinoziano ha messo in qualche modo in disparte il Vico delle Orazioni Inaugurali , nelle quali sono evidenti e innegabili temi platonici, neoplatonici, ficiniani e, a mio avviso, già anche herbertiani. Se è vero che Vico le Orazioni le ha riscritte, nella sua Autobiografia, pubblicata nel 1728, ci insiste, indicandovi in definitiva un percorso culturale che non va sottovalutato ma anzi relazionato con le altre sue opere .
D: Quindi per tornare al suo nuovo libro come si inquadra in quanto finora detto.
R: La spiegazione che ho dato della figura vichiana di donna dalle tempie alate del frontespizio della Scienza Nuova del 1744, che per me rappresenta la mente, e di quella della Dipintura, ricostruendo le loro fonti e la loro complessa relazione, si basa su ipotesi fondate su dati e informazioni documentati, mettendo a fuoco il linguaggio simbolico utilizzato da Vico, che va oltre i contenuti espressi a parole. Tra l’altro l’ ipotesi, sostenuta nel libro, che Vico possa avere preso spunto, sia per i significati dell’immagine e dell‘enigma della donna-mente del frontespizio che di quella della Dipintura, dalla traduzione dal latino, da parte del senese Figliucci, dell‘Epistolario di Marsilio Ficino,a questo punto è diventata, oserei dire, una certezza. Da pochissimo, e dopo l’uscita di Ignota latebat, ho infatti potuto verificare direttamente, all’interno dei dati contenuti nella ristampa, uscita nel 2020, di un antico catalogo datato 1726, che proprio quella specifica traduzione del testo ficiniano era in possesso della Biblioteca dei Girolamini di Napoli, nella quale erano confluiti gran parte dei testi della biblioteca di Giuseppe Valletta, cui si presume che Vico abbia avuto accesso. Nel libro ho comunque messo in relazione alcuni contenuti della Scienza Nuova con quelli di altre opere vichiane, in particolare appunto le Orazioni Inaugurali, col recuperare, anche nelle immagini del capolavoro vichiano, e negli ulteriori simboli in esse presenti( il triangolo,lo specchio, il raggio luminoso etc) le linee del platonismo agostiniano di Vico, che il filosofo napoletano però spesso reinterpreta e laicizza, l’argomento della divinità della mente, la centralità del conoscere se stessi, sui quali si era soffermato lo storico della Filosofia, che è stato mio insegnante all’Università Degli studi di Firenze, Eugenio Garin.
D: Lei inizia il suo volume Ignota latebat con una citazione di Marsilio Ficino e lo conclude con una di Plotino e parla appunto di tradizione ermetica. Ma questo non riporta Vico indietro nel tempo legandolo a tradizioni che Vico stesso aveva ormai superato.
R: Innanzi tutto va rivista e limitata la contrapposizione netta tra ermetismo magico e scienza riprendendo in considerazione le linee indicate da Eugenio Garin nel suo articolo Nota sull’Ermetismo in La cultura Filosofica del Rinascimento Italiano, dove afferma che “distinguere nettamente tra scienza di Keplero o filosofia e religione di Mersenne e Gassendi contro i sogni ermetici dei Rosacroce, in pratica tra ragione e superstizione, appare quanto mai arduo ed anti-storico”… Non dico inoltre in realtà che Vico fosse un vero ermetico, non riscontriamo in lui, a differenza di Herbert di Cherbury, morto vent’anni prima che Vico nascesse, affermazioni chiare circa l’astrologia, l’occultismo, la simpatia universale, il rosarium philosophorum e l’alchimia, caso mai le sue asserzioni vanno in senso contrario, ma di quella tradizione e dei temi neoplatonici che esprimeva, assume per certo alcuni tratti salienti, attinti da un repertorio che include pensatori italiani ma anche europei. E non si può in merito neanche ignorare o silenziare il fatto che nella biblioteca dei Girolamini, che, come ho detto, incorporò gran parte della biblioteca di Valletta, erano presenti oltre alle opere di Galilei, Gassendi, Cartesio, Boyle, Newton, Locke, Leibnitz etc. anche molti testi di ascendenza ermetica, e, oltre a quelli, peraltro in gran numero, di Ficino, a quelli di Tommaso Campanella, di Francesco Patrizi e di Agostino Steuco, anche, in particolare, quelli del cabalista Raimondo Lullo, l’Opera Omnia di Jan Baptista Van Helmont, alchimista e seguace di Paracelso, e quelli dell’occultista e alchimista inglese Robert Fludd. A Napoli quindi con evidenza, tra fine ‘600 e ‘700, anche molto dopo gli studi di Isaac Casaubon, l’interesse per la tradizione ermetica era ancora molto forte. E aggiungo che nella biblioteca c’erano anche le opere di Plotino tradotte e commentate da Marsilio Ficino. Il mio punto di vista è che l’ enciclopedismo del ‘600, di cui ha parlato con estrema incisività Cesare Vasoli, vale a dire la ricerca di un sapere comune dell’umanità, idea che attraversa appunto tutto il ‘600 e che paradossalmente avvicinò Herbert di Cherbury e Marin Mersenne, quindi un ermetico e uno scienziato, oltre che un prete cattolico e un cosiddetto deista, giunga a compimento in Vico e nella sua idea di una “scienza nuova”. La linea Herbert-Vico passa quindi per certo attraverso quel progetto universalista, pansofico, che ebbe forti connotati ermetici e cabalistici, e che mise dei punti fermi, in entrambi i casi. Nel caso di Herbert di Cherbury, tramite il proporre, da un punto di vista laico, una religione universale costituita da 5 principi comuni a tutte le religioni, che ne sono poi le espressioni storiche, fondata su una verità nel suo farsi attraverso la mente, la parte più nobile e divina dell’essere umano. Nel caso di Vico tramite l’idea, cui sollecita il suo lettore, di una mente pura che rifletta su se stessa, per contemplare appunto quella mente comune che ha attraversato e scandito la storia fatta dall’uomo, diventando quindi soggetto e oggetto, come ho detto nel libro, e cogliendo nell’identità tra conoscere e fare i principi divini costanti e universali sui quali si sono fondate poi, nella loro varietà, le leggi particolari delle nazioni.