Romualdo Luzi ha completato la biografia del poeta Antonio Ongaro nato a Padova nel 1560 e morto a Valentano nel 1593

Antonio ONGARO, nasce a Padova nel 1560.

Completati gli studi universitari a Palazzo del Bo di Padova nel 1578, Antonio Ongaro (Unghero, nella forma arcaica), aveva appena compiuto 18 anni e s’era laureato in “Legale”, così era definita allora la specializzazione in giurisprudenza. Sicuramente non dovette essere semplice, per un giovane alle prime armi, ricercare un adeguato impiego, nella città natia o, forse pensare alla ricerca di un trasferimento in altro luogo ove i propri famigliari potevano avere dei riferimenti e conoscenza di personaggi capaci di comprendere la valenza di un giovane con questa preparazione.

Trasferitosi a Roma, trovò accoglienza presso il palazzo della famiglia spagnola dei Ruiz, tanto che poi lo stesso Antonio dedicò loro il poemetto Hospitium Musarum e, in seguito, addirittura la prima favola piscatoria della letteratura italiana, l’Alceo, edita dallo Ziletti di Venezia nel 1582.

È doveroso aggiungere, come scrive il primo biografo che, durante il corso universitario, l’Ongaro era sì iscritto in una facoltà diversa, ma certamente preferiva i diletti delle muse, cioè s’era dedicato probabilmente, piuttosto che alle norme della giustizia, anche alla composizione di poesie, canzoni e favole in rima. L’Università stessa, tra l’altro, era frequentata da poeti e scrittori tra cui il Tasso, di cui l’Ongaro divenne uno dei più fedeli seguaci. A Palazzo Ruiz trovò altri poeti come il “Cavalier” Giovan Battista Marino e musicisti come Luca Marenzio che musicò proprio alcuni suoi madrigali.

Dopo Roma la sua tappa fu Nettuno, ospite del coetaneo Fabrizio Colonna, figlio del notissimo Marcantonio Colonna, colui che partecipò con le navi cattoliche alla vittoriosa battaglia di Lepanto. A Nettuno ambientò la sua favola tanto da scrivere, all’inizio del poema che la scena si finge nei lidi dove fu Anzio ed ora è Nettuno, castello dei Signori Colonnesi. La favola fu rappresentata nel 1581 proprio a Nettuno, dinnanzi alla Corte della famiglia Colonna da cui si allontanò, per tornare a Roma probabilmente anche per la scomparsa “a causa di fiero morbo” dell’amico Fabrizio, avvenuta l’anno precedente. Destino volle che la salma di quest’ultimo, nel corso del viaggio di ritorno da Gibilterra a Nettuno, scomparve a causa di una tempesta. Nel frattempo l’Ongaro, tornato a Roma, era entrato nelle grazie della famiglia Farnese per merito di Tiberio Palella detto il Cupo, nipote del Medico personale che aveva curato Paolo III Farnese, che si adoperò perché il giovane trovasse impiego presso Mario Farnese, signore del feudo del ramo cadetto di Latera e Farnese, e che nel frattempo, era divenuto il comandante della Cavalleria del cugino Duca di Piacenza e Parma, Alessandro Farnese, che lo aveva voluto con sé in Fiandra combattente per le truppe spagnole di Filippo II.

Mario, nel frattempo, frequentando l’ambiente parmense, aveva avuto l’opportunità di conoscere e sposare Camilla Meli Lupi, Marchesana di Soragna, figlia della nobildonna Isabella Pallavicini, amante delle belle lettere e che ricevette l’omaggio anche di un sonetto da Torquato Tasso.

Dell’Ongaro restano sostanzialmente molte composizioni poetiche che lo resero noto e famoso nel tempo breve della sua esistenza, se consideriamo che morì appena trentatreenne mentre era al servizio di Mario Farnese, come Segretario e Auditore. Tiberio Palella che fu l’artefice dell’amicizia con Mario, lo ospitò nella sua casa di Valentano e l’Ongaro, probabilmente rimasto orfano della madre, scelse e sposò una giovane del posto, Armenia Mascijna, con cui ebbe tre figli: Costantino Pollonio, Camilla e Isabella, (forse quest’ultima morta in tenera età). Nel luglio 1593 dettò il proprio testamento e la morte dovrebbe essere avvenuta in quei giorni.

Fu sepolto nella Chiesa Collegiata di Valentano e sulla sua pietra tombale in basalto locale è riportata la scritta che lui aveva dettato prima della sua scomparsa.

Era scritta in un distico latino ed esattamente così fu incisa: “D.O.M. / ONGARUS HIC / IACEO ME ANNIS / PERYSSE VIATOR / DIC IVVENEM FAMA / SED PERIISSE SENEM”. (Io Ongaro sono qui sepolto, o viandante, dì che sono morto giovane d’anni, vecchio per fama).

Come detto la sua opera principale fu l’ALCEO di cui si è parlato, mentre le RIME, patrocinate dalla marchesana di Soragna Isabella Pallavicini, apparvero in stampa presso la Tipografia Mariani di Farnese, nel 1600.

Col nome di Affidato fu accolto nell’Accademia degli Illuminati, fondata dalla stessa Pallavicini, suocera di Mario Farnese.

A parere dello scrivente che, recentemente, ha edito la sua biografia, in uscita tra qualche giorno nelle librerie e nelle edicole, resta splendido e insuperabile l’Epitalamio, scritto e pubblicato in ottava rima, in occasione delle nozze di Mario Farnese e Camilla Meli Lupi di Soragna, stampato nel 1586 a Piacenza da Anteo Conti.

Nonostante la breve vita, Antonio Ongaro riuscì a crearsi una grande fama, così come volle fosse scritto sulla sia lapide tombale sopra riportata.

In una edizione del 1818 fu stampato un ritratto del poeta che sicuramente è assolutamente inventato mentre lo scultore che lo ha ritratto in bassorilievo nel Mausoleo del Tasso nella Chiesa di Sant’Onofrio a Roma asserisce che tale personaggio fu copiato da incisioni e dipinti quando il poeta era vivo.

 

Il volume “I diletti delle muse” è stato realizzato con il contributo della Fondazione Carivit

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