TITOLO:
Novelle Toscane
– dalla Maremma all’Amiata
AUTORE:
Iride Rossi Micheli
Fiora Bonelli
FORMATO: brossura
PAGINE: 186
COLLANA: Tradizione e Folclore
ISBN: 978 88 6433 090 7
ANNO DI PUBBLICAZIONE: 2010
PREZZO: euro 13.00
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Raccontare storie.
Novelle Toscane è una bella raccolta di favole da leggere ai propri o altrui bambini (ma va benissimo anche sentirsele leggere dai bambini) corredata dalle fantastiche tavole a matita disegnate da Manrico Tonioni che meritano una speciale menzione (alcuni ritagli sono disseminati nel corpo di questo articolo). Potrebbe essere uno di quei regali che si ricevono in tenera età, le cui figure, intrecci e personaggi saranno ricordati per il resto della vita come momenti da conservare fra i più preziosi. E’ un libro semplice fatto di immagini familiari sia disegnate che evocate dalle parole, da godere come un bel fiore (di campo).
Il resto dell’articolo è invece il tentativo di esaminare le radici di questo fiore, ed eventualmente di prefigurarne i frutti (e dare un contributo alla risposta dell’eterna domanda: «Do androids dream of electric sheep?») attraverso una brevissima intervista epistolare fatta ad una delle autrici del volume. Forse conviene partire dal principio…
Il 6 Maggio del 1812 Jacob Grimm scriveva, anche a nome del fratello Wilhelm, la seguente lettera a L. Von Arnim:
«Se tu puoi persuadere qualche editore a pubblicare i racconti per bambini che noi abbiamo raccolto ti prego di farlo; noi siamo disposti a rinunciare a qualsiasi retribuzione; potremmo chiederla se mai per una eventuale nuova edizione; poco importa che la carta e la stampa siano buone o cattive; nel secondo caso il volume costerà meno e quindi ne sarà più facile la diffusione; non abbiamo che un desiderio, quello di incoraggiare, con questo esempio, delle raccolte dello stesso tipo; ed è per questo che noi proporremmo di aggiungervi una lista di racconti che mancano o che sono incompleti, ma oltre a ciò non vi sarebbero né note né commenti».
[dalla prefazione di Giuseppe Cocchiara all’edizione Einaudi delle fiabe dei fratelli Grimm]
Molte cose sono cambiate da quel lontano giorno di maggio dei primi dell’800. Ma erano quelli gli anni nei quali qualcuno iniziava a gettare le basi e a maturare approcci originali per lo studio delle tradizioni popolari e del patrimonio fiabistico delle popolazioni, in quel caso, di lingua tedesca. Per quel che riguarda l’Italia, ed in particolare la Toscana e la Maremma, moltissimi anni dopo sarebbe arrivato il preziosissimo lavoro di Roberto Ferretti per il quale vale senza dubbio la pena menzionare almeno il bellissimo volume Fiabe e storie delle Maremma che attinge al fondo narrativo di tradizione orale che porta il nome proprio di questo studioso prematuramente scomparso. Lì sono raccolte le trascrizioni fedeli (e vernacolari) di centinaia di favole appartenenti alla tradizione maremmana, con una attenzione particolare rivolta al linguaggio che non subisce alcun rimaneggiamento, alcuna traduzione in bella copia, nessuna concessione a criteri meramente diffusivi.
I Grimm, in quelle poche righe, mostrano di avere esigenze di altro tipo: a loro interessa che le fiabe che hanno avuto la pazienza di raccogliere abbiano la più ampia possibilità di distribuzione; che costino il meno possibile e che siano stampate anche su carta dozzinale, la cosa importante è il contenuto non la sua forma. Anche in questo caso il parallelo con i nostri giorni è automatico: una favola letta su carta di cattiva qualità mantiene il suo fascino o ne viene svilita? E addirittura rinunciando alla carta: una favola letta sullo schermo di un computer o su un ebook reader rimane una favola o c’è bisogno di un minimo di “impianto scenografico”? Quante concessioni si possono accettare in nome della diffusione? Riaffiorano alla mente i titoli del grande Gianni Rodari come Novelle fatte a macchina e Favole al telefono.
Questi e altri punti sono stati toccati attraverso il veloce scambio di e-mail con Fiora Bonelli, autrice, insieme a Iride Rossi Micheli, dell’ottimo Novelle Toscane dalla Maremma all’Amiata, edito da Effigi nel dicembre 2010 per la collana Tradizione e Folclore.
Novelle Toscane è un volume che raccoglie quarantuno novelle ascrivibili alla tradizione toscana e maremmana e per realizzarlo, dice Fiora Bonelli:
«Abbiamo utilizzato alcuni testi di novelle popolari, soprattutto quelle raccolte da Ferretti, ma le abbiamo tutte quante ricostruite a memoria nostra, così come ci erano state raccontate».
Quindi diventa importante la questione della lingua, una riflessione da attuare precedentemente alla fase di scrittura: quale tipo di lingua è più opportuno utilizzare per questo tipo di letteratura? Bisogna intervenire in qualche modo sulle fonti adottate per esempio per limare l’uso di termini o perifrasi dialettali ma cercando di conservare una genuinità di fondo?
«La fonte ci è servita esclusivamente per “farci venire a mente “le novelle. Per il linguaggio da usare, abbiamo deciso di utilizzarne uno semplice, comprensibile da un target di pubblico il più ampio possibile, eliminando la possibilità dell’uso del dialetto che pure avevamo preso in considerazione. Se questo è stato l’accordo di partenza, è anche vero che poi Fiora ha preferito usare un linguaggio quando era possibile, quotidiano, indulgendo pochissimo ad impreziosire la novella. Iride ha invece preferito il linguaggio più elaborato».
Del resto, il materiale narrativo utilizzato è parte di una tradizione innervata nel territorio cioè, a sua volta, il risultato di una elaborazione collettiva di lunghissimo respiro, un brodo di coltura costantemente in ebollizione. C’è chi ha accostato il mondo della fantasia popolare che ha generato racconti come questi ad un paiolo ideale riempito degli ingredienti più vari: la storia, il mito, la creazione letteraria, la quotidianità… Tutto insieme a bollire per (ideali) secoli e secoli. E’ qui che affonda il mestolo il narratore, colui che si prende la briga di portare alla luce una nuova storia. Per ciò che riguarda le novelle raccolte in questo libro ci sono elementi pertinenti alla storia o alla mitologia o altro dei quali si può indovinare il profilo in trasparenza?
«La metafora del paiolo è giustissima. Per quel che ci riguarda, le nostre novelle amiatine (toscane) prediligono la quotidianità sia nei personaggi che negli animali che negli oggetti, ma naturalmente nella novella tutto ciò può trasformarsi in incanto, in fantasia, in maleficio, in stregonesco. Così che la novella diventa, mi si passi l’espressione una specie di Mitologia popolare».
Ecco, ad esempio, gli incipit di alcune novelle:
La bella dai sette veli
C’erano un babbo e una mamma che avevano tre figli e solo un magro campicello da coltivare; vivevano così poveramente che spesso in casa non c’era nemmeno di che sfamarsi. I due fratelli maggiori, gran lavoratori, ma poco furbi, erano molto gelosi del più piccolo che, pur essendo più svogliato, con il suo modo di fare riusciva sempre ad accaparrarsi la simpatia dei genitori. Finché il babbo e la mamma furono vivi, i ragazzi sopportarono quella vita grama, ma quando quelli vennero a mancare, decisero di comune accordo di andarsene per il mondo in cerca di fortuna. Camminarono a lungo per monti e valli, senza trovare un posto adatto per fermarsi, finchè arrivarono in una bella e ricca città; pensarono che lì non si moriva certo di fame e decisero di fermarsi anche se il sovrano del luogo era dispotico e crudele […]
Buchettino
C’era una volta una donna che aveva un figliolo piccino piccino e tutti lo chiamavano Buchettino. “Buchettino, mi spazzi la casa che ti do un centesi mino?” E Buchettino spazzò la casa ed ebbe il centesimino. “Che ci compro?” pensava. “Se ci compro una pesca mi tocca buttar via il nocciolo, se ci compro una mela mi tocca buttar via il torsolo. Ci comprerò un fichino”. Buchettino andò a casa e mangiò il fico e buttò un semino nell’orto. La mattina dopo in mezzo a quest’orto era nata una ficaia carica di fichi. E Buchettino andava sempre a mangiare i fichi in questa ficaia, sia col sole che con l’acqua. Un giorno che pioveva, Buchettino era sopra la ficaia e passò l’orco: Buchettino, Buchettino, tirami un fichino col tuo manino!”, disse l’orco. […]
La capra Ferrata
In un piccolo borgo di montagna viveva una vecchietta un po’ svanita. Era così distratta che il più delle volte, quando usciva di casa, si dimenticava di chiudere la porta.. In quel paesino si conoscevano tutti ed erano tutte persone oneste, non c’era pericolo che le rubassero niente, anche perché in casa non c’era niente da rubare. Il problema era un altro. Dall’uscio aperto poteva entrare la capra Ferrata, una bestiaccia che viveva fra le rocce sovrastanti l’abitato. Da lassù non le sfuggiva niente di quello che accadeva in paese e se vedeva una porta aperta si infilava dritto dritto in casa e poi non si riusciva a mandarla più via. I vicini raccomandavano sempre alla nonnina di stare attenta: “Chiudi bene quando esci. Se ti entra in casa la capra Ferrata poi sono guai”. Lei, poveretta, cercava di farlo, ma la memoria, a volte, le faceva cilecca. […]
Perché la miseria non muore mai
In un paese del quale il nome non è stato tramandato, viveva un dottore che visitava tantissime persone. Ma tutte quelle che erano visitate da lui, chissà perché, morivano presto. La gente era preoccupata e arrabbiata e cominciò a supporre che fosse il dottore il responsabile di tante morti. Così nessuno andava più a visitarsi e il dottore fu costretto a lasciare il paese per andare a guadagnarsi il pane. Da quel giorno, però, la Morte non aveva niente da fare. Il dottore non c’era più, i pazienti neppure. Nessuno si ammalava. Tutti invecchiavano e invecchiavano, finché il paese fu abitato da tanta e tanta gente che non sapeva più come mantenersi e come campare. La padrona indiscussa del paese era la Miseria. Un giorno, alla Morte che da anni e anni oziava annoiata, venne in mente che sarebbe potuta andare a prendere la Miseria. Aveva sentito dire che non stava affatto bene: tanti acciacchi, affanni, preoccupazioni. Così le si presentò davanti e le disse: “Sono venuta a prenderti”. Ma la Miseria, che era malata sì, ma assai astuta, le rispose: “Mentre preparo il mio fagotto, tu vai su quel pero a cogliere qualche pera. Le mangeremo durante il viaggio” […]
Elisena, la bella mora
Al tempo delle favole in un sontuoso castello viveva un giovane principe molto amato dai suoi sudditi, ma meno dai suoi servitori che, nonostante cucinassero per lui le pietanze più prelibate, non riuscivano mai ad accontentarlo. Lui voleva in tavola sempre e solo pesce e se questo mancava, stava piuttosto senza mangiare, ma poi era nervoso e irascibile e guai a chi gli capitava a tiro. Una mattina il capo cuoco si recò personalmente al mercato per cercare i pesci migliori; ne trovò solo tre, ma grandi e belli e li acquistò senza battere ciglio, anche se avevano un prezzo eccessivamente alto. […]
«Per noi è valso, innanzitutto il senso del tramandare e fissare un patrimonio culturale che sentiamo nostro e abbiamo provato a raccontarlo».
Dunque il compito del folclorista si esaurisce esclusivamente nella trascrizione? L’intento che ha animato l’attività dei primissimi studiosi di queste materie era proprio quello di fare emergere un carattere nazionale, ancestrale (germanico nel caso dei Grimm) delle popolazione cui apparteneva il repertorio fiabistico raccolto attraverso la proposta (e, in un certo senso, la fissazione) di un patrimonio orale vissuto più che studiato e analizzato nelle sue declinazioni, fino a quel momento.
Oggi, però, è l’epoca di Internet: potrebbe essere proprio questo strumento il miglior veicolo per la trasmissione e la vitalità delle tradizioni popolari in generale e delle fiabe in particolare? Una novella letta su (o da) lo schermo di un PC o su un lettore ebook resta una novella o si trasforma?
«Certo che internet è oggi il principale veicolo di trasmissione e di comunicazione. Personalmente sono una “tifosa” del libro cartaceo che si tocca e si manipola. Una novella letta sullo schermo resta una novella, ma perde di certo il fascino dell’artigianalità e acquista quello, diverso, del “prodotto di massa».
Quale è stato il vostro indirizzo particolare per la stesura di questo repertorio novellistico? In questi racconti quali sono state le tecniche narrative o le figure retoriche più utilizzate?
Abbiamo utilizzato soprattutto noi stesse e i nostri ricordi. La tecnica narrativa: individuazione dell’inizio e della fine, sistemazione e ingresso rigoroso dei personaggi, tutti gli oggetti che fanno parte del quadro devono essere utili alla storia. Uso del dialogo. Filastrocche e ritornelli. Musicalità del racconto. Armonie. Le figure retoriche sono strettamente aderenti al momento del racconto. Possibilmente poco eclatanti (poche le similitudini, meglio la metafora ad esempio).
Questa è una celebre e citatissima frase di JRR Tolkien, dal libro Albero e foglia:
«[…] Le fiabe, nel moderno mondo alfabetizzato, sono state relegate alla stanza dei bambini, così come mobili sciupati o fuori moda vengono relegati nella stanza dei giochi, soprattutto perché gli adulti non vogliono più vederseli d’attorno e non si preoccupano se vengono maltrattati».
Chi è il lettore ideale del vostro libro? Una letteratura che parli di re e regine, spade e armature, astuti contadini, maghi, streghe, draghi e cavalli parlanti è una letteratura di seconda classe?
«Non esistono classi per la letteratura. Esistono generi. Questo è un genere che ha caratteristiche sue proprie. Certo non è lirica né romanzo, né commedia né tragedia, né poema epico. E’ novella, un genere letterario autorevole fin dal 1400 e anche prima».
Avete in cantiere altri lavori ?
«Lavori di questo tipo? Forse. Ma novelle inventate di sana pianta».
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Le Novelle Toscane sono:
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Per chiudere, una personale curiosità che lascio in sospeso, una domanda aperta: nella novella La canzone di Centino l’orco pronuncia una variante del famoso:
«Ucci… Ucci… Sento odor di cristianucci!»
Anche in Elisena la bella mora, in due occasioni si trova la stessa espressione. L’impressione è che pur essendo una frase che è facile trovare nelle favole e che viene adoperata dai bambini nei loro giochi, non sia poi così ingenua ed abbia radici antiche. Per esempio Umberto Eco la fa pronunciare all’ebreo Mordechai nel suo ultimo Il Cimitero di Praga e in quel contesto le tinte diventano molto più fosche… Da dove verrà questa “frase”?
Massimiliano Cavallo