Recensione del libro di Santino Gallorini “La memoria riunita“
La strage commessa dai nazifascisti a Civitella della Chiana e nei paesi vicini il 29 giugno 1944, culminata nell’uccisione di oltre duecento vittime innocenti, è stata a lungo oggetto di aspre polemiche fra popolazione civile e partigiani, circa la responsabilità dell’eccidio. Si tratta di una vicenda che definire tragica è dir poco, che ha assunto fin da subito valenze politiche, ideologiche, morali enormi, al di là delle responsabilità dei singoli. Fa parte di quella lunga sequela di eccidi che durante la Seconda guerra mondiale ha colpito soprattutto le comunità della Toscana centro-settentrionale, da Vallucciole a San Polo, a Meleto, a Castelnuovo dei Sabbioni, a Niccioleta, a Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e tante altre. Ma ha una particolarità, rispetto ad altre: quella di aver assunto un significato quasi simbolico della lacerazione provocata nella popolazione, nelle vittime e nella ricerca dei colpevoli; nell’essere stata oggetto di un dibattito che è andato ben al di là del piano locale e ha visto la partecipazione di voci anche autorevoli dell’intellighenzia del tempo, un dibattito che ha investito quella che decenni dopo è stata chiamata da Pavone la moralità della Resistenza. Fin dal 1946 Romano Bilenchi, uno degli intellettuali più acuti della sinistra, che gravitavano intorno alle riviste “Rinascita” e “II Contemporaneo”, pubblicò insieme a Marta Chiesi, sul numero 7-8 di “Società” (la rivista da lui fondata in quell’anno) un contributo sulla “strage di Civitella”, dove erano riportate drammatiche testimonianze raccolte fra le donne sopravvissute; e l’anno successivo le testimonianze furono tradotte in francese e ripubblicate nella rivista “Temps Modernes”, di cui era direttore Jean Paul Sartre, con il titolo Il lamento di Civitella della Chiana.
È una vicenda scottante rimasta per decenni nella memoria della popolazione in modo costante, producendo una spaccatura fra gli abitanti di Civitella e i partigiani, ritenuti dai primi i responsabili della strage. Uno dei personaggi principali coinvolti, ancora vivente, è Edoardo Succhielli, il comandante “Renzino”, che aveva organizzato una formazione partigiana operante nei versanti tra l’Arno e la Chiana, con frequenti azioni anche nella zona di Civitella, volte a contrastare le angherie degli occupanti nazifascisti. Nel dopoguerra il Succhielli, nonostante il suo carattere schivo, diventerà l’emblema di un contrasto radicale fra coloro che ne fecero il campione della resistenza al fascismo e quanti gli imputarono la responsabilità dell’eccidio. Eletto sindaco di Civitella da una coalizione di sinistra, sarà fatto oggetto di pesanti interferenze da parte della prefettura su sollecitazione del ministero dell’Interno, che ne chiede le dimissioni; alla fine sarà trasferito a Sondrio e costretto a dimettersi per l’impossibilità di svolgere il suo mandato. Negli stessi anni sarà coinvolto anche in aspre polemiche giornalistiche, con l’accusa di aver provocato la strage come rappresaglia ad un attacco nel Dopolavoro di Civitella il 18 giugno, “che portò alla morte di tre militari tedeschi e al ferimento di un quarto soldato. Dopo quel giorno nulla fu più come prima” (p. 59): dieci giorni dopo a Civitella, a San Pancrazio, a Cornia, a Gebbia, si scatenò l’inferno, che tante polemiche e interrogativi ha suscitato nei sopravvissuti.
Trentacinque anni dopo quelle vicende, nel 1979, Eduardo Succhielli ha pubblicato sotto forma di memorie, documentate e arricchite dall’apporto di altri testimoni, un volume intitolato La Resistenza nei versanti tra l’Arno e la Chiana; l’argomento era quasi tabù all’epoca e tale è rimasto a lungo: a Civitella non era facile parlare di Resistenza, partigiani, lotta di Liberazione. Eravamo ancora in piena guerra fredda, in un clima di contrapposizione totale, seguito alla spartizione del mondo in zone d’influenza in base agli accordi di Yalta, con il muro di Berlino e la “cortina di ferro” che dividevano l’Europa: non si parlava ancora di memoria divisa, di “armadio della vergogna”, di processi ai comandanti e ai soldati nazisti che si erano macchiati di crimini di guerra, durante le stragi nei vari fronti, e tanto meno delle responsabilità dei fascisti italiani nel fronte slavo, lungo i Balcani, in Grecia, in Albania.
Dopo quel libro altri ne sono seguiti, soprattutto quelli di Enrico Biagini, Civitella: un paese, un castello, un martirio (1981), di Ida Baiò Valli, Giugno 1944. Civitella racconta (1994), di Leonardo Paggi, Storia e memoria di un massacro ordinario (1996), di Giovanni Contini, La memoria divisa (1997), di Ivano Tognarini, Kesserling e le stragi nazifasciste. 1944 Estate di sangue in Toscana (2002), di Romano Moretti, II giorno di San Pietro: l’eccidio di San Pancrazio. Le memorie e la storia (2005), di Enzo Droandi, Le stragi del 1944 nella Toscana Orientale (2006) di Salvatore Mannino, La giustizia divisa. Civitella e San Polo: cronaca e storia di due stragi (2008). Infine nel 2006 è stata emessa anche la sentenza del tribunale militare di La Spezia che ha condannato due soldati tedeschi per le stragi del 29 giugno. Dunque nel corso di un settantennio questa vicenda terribile è stata oggetto di migliaia e migliaia di pagine, di memorie, testimonianze, documenti, versioni contrastanti.
Il libro di Santino Gallorini ha cercato di scavare in tutto questo, in una ricerca che ha il taglio storico, che si basa sui documenti e le fonti orali, ma vi aggiunge la sensibilità di chi indaga nella psicologia delle persone, nella ricerca di spiegazioni dei comportamenti individuali, non sempre prevedibili ed immaginabili. Il volume ripercorre prima di tutto la biografia umana, politica, militare di “Renzino”: le tappe della sua formazione giovanile, l’ingresso nell’esercito come paracadutista, le sue scelte, i suoi dubbi, i mancati traguardi, l’incoscienza di certe azioni, come quella del 18 giugno, definite “partigiane”, ma di cui a distanza di tempo lo stesso Succhielli si pente alla luce delle vicende successive. La parte centrale del volume ha per oggetto la strage di Civitella della Chiana, analizzata, su un piano diacronico: da un lato lo svolgimento dei fatti e dall’altro la lunga storia della contrapposizione fra le versioni dei partigiani e della popolazione, evidenziando quanto la memoria della vicenda sia stata a lungo segnata da contrapposizioni, polemiche, ripensamenti, dibattiti, rasserenamenti, riconciliazione.
L’autore, un ricercatore dai vasti interessi storici, che vanno dal medioevo al Novecento, procede in questo volume ad un’analisi scrupolosa e ad una ricomposizione delle diverse fonti, testimonianze e documentazioni. Il suo libro parte dall’analisi dei precedenti contributi, considerati come tanti tasselli di un mosaico da ricostruire. Ha il grande merito di portare un contributo fondamentale in questo filone di ricerca, di lavoro sulla memoria, per proporre una lettura condivisa, dopo decenni di lettura contrapposta e lo fa dialogando in primo luogo con i principali autori (idealmente o realmente) che si sono occupati della vicenda, affrontando coraggiosamente un argomento ritenuto fino ad anni recenti scabroso: quello della responsabilità della strage, alla luce dei più recenti studi sull’argomento e delle ricerche storiche più avanzate – in particolare quella pubblicata dallo storico tedesco Lutz Klinkammer sulle Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1997) – che hanno documentato in modo indiscutibile come gli ordini impartiti ai capi dell’esercito prevedevano che si potesse, anzi si dovesse, praticare un’azione generale di guerra ai civili, anche senza la certezza che vi fossero dirette responsabilità o connessioni con fatti, sabotaggi, attacchi partigiani, oggetto di rappresaglia. Le disposizioni impartite dai comandi dicevano che qualunque eccesso nella guerra ai civili sarebbe stato tollerato, mentre qualunque debolezza sarebbe stata punita, per cui anche nel caso di Civitella bisogna considerare che accanto alle vicende locali, scatenanti il singolo episodio, c’è un atteggiamento di fondo negli occupanti che conducono una rabbiosa “guerra ai civili”.
Gallorini si è impegnato in un’impresa non facile, che presuppone prima di tutto ascolto, attenzione, ricerca paziente delle fonti, delle testimonianze, scavo nei ricordi dei protagonisti, interviste, passione per la verità e senso civile, nella consapevolezza di un uso pubblico della storia, che travalica i limiti delle ricostruzioni di parte, mirando ad una sintesi equilibrata, anche se “oggettivamente non è tanto facile districarsi tra le differenti testimonianze rilasciate dagli stessi soggetti a distanza di anni l’una dall’altra” (p. 81). La ricostruzione storica in certi passaggi assume il ritmo di una lenta, minuta, scansione alla moviola, sembra un’indagine giudiziaria, un processo criminale, e del resto Gallorini attinge anche alle fonti giudiziarie, come l’indagine avviata dagli inglesi nell’autunno del 1944 o il processo intentato nel 1951 a seguito della polemica giornalistica insorta dopo gli articoli pubblicati dall'”Avanti!” e da “II Mattino dell’Italia Centrale” ed infine il processo al tribunale militare di La Spezia, conclusosi nel 2006, con la sentenza di condanna dei soldati tedeschi, colpevoli dell’eccidio di Civitella.
Alla fine i diversi soggetti coinvolti in questa storia manifestano la loro condivisione nei confronti dei risultati della ricerca (lo stesso Succhielli riconosce che quella del Dopolavoro fu un’azione sbagliata); per cui l’autore può parlare di “memoria riunita”. È finita la guerra fredda anche in questo campo, e il volume di Gallorini su “Renzino” vi ha portato un contributo fondamentale; ma quanto alla effettiva ricomposizione della memoria, andate a chiedere ai civitellini, quando si parla della strage del 29 giugno, e vedrete che ancora la contrapposizione non è del tutto superata.
Ivo Biagianti
da “Notizie di Storia”, n.31 – giugno 2014